Decisamente Pugliese
Dove si parla del rebranding senza rebranding di Birra Raffo, da icona di una città a simbolo di una regione. E di tante altre cose con la Puglia al centro.
Nu sim tarandin cu u cor rossoblù, bvim a birra Raff e nijnd chiù
La Birra Raffo non è mai stata la birra “decisamente” pugliese. Mia madre era tarantina e, d'estate, affittavamo sempre una villa dalle parti di San Vito. Di fronte alla nostra villa c’era un chioschetto sulla spiaggia, frequentato per lo più da ex galeotti tatuati. E avere un tatuaggio alla fine degli anni ‘80 era un grande atto di coraggio o una dedica a qualcuno che non vedevi da tempo. Il juke box suonava “Una storia importante” di Eros Ramazzotti, “I maschi” di Gianna Nannini, “Sotto questo sole” dei Ladri di Biciclette. Dal dondolo della mia villa si sentiva indistintamente il rumore del vuoto a rendere sbattuto sul tavolo. Le birre non erano le birre, erano le “Raffo”. La birra dei due mari.
Ieri sera Vanessa Carmicino mi ha mandato una foto da Milano. Precisamente dalla nuova metro 4 di Milano, quella che collega la città con l’aeroporto, nonché alcune zone molto importanti del business e dell’innovazione. So per certo – sì, sono quello di Mare a sinistra – che in quelle aziende ci lavorano molti pugliesi. Il rebranding di Birra Raffo è passato un po’ inosservato, ma è una delle operazioni più interessanti degli ultimi anni. È la birra di una città – allo stadio Iacovone si canta da decenni “nu sim tarandin cu u cor rossoblù, bvim a birra Raff e nijnd chiù” (abbiamo il cuore rossoblu e beviamo solo la Raffo) – che diventa la birra di una regione intera, ricalcando un po’ il modello Ichnusa, sebbene la Sardegna sia una nazione con una propria lingua, e approfittando di un gap di mercato.
La Peroni non è “la birra pugliese”. E non è nemmeno barese. È la birra dei baresi, semmai. Letteratura, fiction, festività la celebrano. A Bari c’è uno stabilimento della Peroni, c’è un legame fortissimo tra i cittadini e il marchio, ma il brand ha un altro posizionamento. Basti pensare alla Nazionale o alle serie TV in cui Peroni è product placement, ultima “Hanno ucciso l’uomo ragno”, dedicata agli 883. Ergo, non c’è una birra pugliese: a Bari si beve Peroni, a Lecce Dreher, a Taranto Raffo.
Nel marchio Raffo è rimasto il richiamo a Taras, il mito della Grecia (non tutti sanno che Taranto è una città della Magna Grecia), ma non si parla più di "birra dei due mari". "Decisamente pugliese" è il nuovo claim scelto dal Gruppo Peroni. Sì, perché Raffo fa parte di Birra Peroni. Si tratta di concorrenza interna, una storia molto simile a quella di Campari che, dopo il successo dell'Aperol Spritz e del classico Campari, ha realizzato un’operazione di grande impatto, di cui ho già parlato, con il Cynar Spritz, sponsor del Venezia Calcio.
A Bari si celebra un nuovo umanesimo
"In un contesto storico e geopolitico sempre più teso, in un periodo quasi toccato dall'oscurantismo, Bari offre l’immagine di un nuovo umanesimo che mette al centro le persone e le loro competenze, e che non si arrende di fronte alle difficoltà, ma si mette in moto per creare nuove opportunità. Questa è la risposta più bella che si possa dare a tutta la violenza, rabbia e immobilismo al quale assistiamo su base quotidiana, un esempio di coraggio e capacità di immaginare un domani diverso."
Da questa idea prende vita lo Storytelling Festival, che si terrà il 25 e 26 ottobre.
Proprio l'altro giorno, osservando i tanti turisti stranieri in giro per Bari, pensavo: "Che bello vedere tanta gente sul lungomare, sulle spiagge, per le vie del centro. Ma non sarà mai bello come vedere tante persone venire a lavorare e a vivere qui".
Bari è una città che in questi ultimi anni ha visto uno sviluppo importante, sono stati messi in atto progetti di riqualificazione e rigenerazione urbana, e diverse aziende nel settore digitale si sono avvicinate alla città, contribuendo ad una crescita dei centri di ricerca e formazione. La retorica spiccia per la quale “al Sud non si può lavorare” non vale più, non è più una scusa valida, e Bari ne è l’esempio. Da anni la città ospita iniziative riguardanti il mondo del business, sempre con un’ottima risposta da parte del pubblico (overbooking), nelle quali si va a fondo delle grandi questioni del nostro tempo: AI, rapporto tra lavoro e vita privata, social network e molto altro.
Ne ha parlato Marta De Vivo su Huffington Post.
“Cisco era il piu punk di noi, solo che non lo sapeva”.
Hanno ucciso l’uomo ragno
Ho amato Sydeny Sibilla nella trilogia di Smetto quando voglio, ma anche in Mixed by Erri, e in questa serie dedicata agli 883 tutto inizia, ancora una volta, da un audiotape. Cassette e canzoni che restano nella loro custodia per timidezza, mancanza di esuberanza e di coraggio, o perché ci si guarda negli occhi e ci si dice “Dov’è che vuoi che andiamo con ‘ste facce io e te”.
Hanno ucciso l’uomo ragno non è solo la storia degli 883, ma una serie sul destino e sui sogni. C’è la provincia, che ha un ruolo preponderante - “Piuttosto che stare qui in estate, la gente muore”, dice Cisco -, c’è la musica ed è anche una gran bella musica perché Max ascolta i The Pixies, i Joy Division, i The Clash, c’è l’amicizia come centro propulsore. Uso non a caso questa metafora, perché l’incontro tra Massimo Pezzali - “Però perché Massimo? Max!” -, antieroe per eccellenza, e Mauro Repetto è ispirato ad un’altra grande amicizia del cinema italiano: quella tra Piero Mansani e Tommaso Paladini di Ovosodo, film di Virzi. “Come Brian Eno per gli U2 e Bearzot per la Nazionale fu l’incontro centrale della mia adolescenza”. Ci sono scene cosi simili da sembrare omaggi: l’incontro in classe, il pranzo a casa con i complimenti alla mamma, le fughe in motorino. Il resto è storia, come va a finire lo sappiamo tutti, ma Sidney Sibillla è riuscito, almeno in queste prime due puntate, a schivare l’equivoco del documentario (qualcuno si ricorda Jolly Blue?) per raccontare una storia che sarebbe davvero incredibile se fosse vera. E infatti lo è. Solo che come tutte le belle storie va guardata dalla distanza giusta.
Te ne parlo, perché è un ottimo esempio di come si raccontano storie: ovvero per livelli. C’è il livello di chi non conosce i fatti, soddisfatto dalla ricerca di una trama che si reggerebbe anche se Max e Mauro fossero due personaggi inventati. C’è un secondo livello, ed è quello di chi si appassiona a questa serie per gli anni ‘90 e poi ci sono i citazionisti, quelli che quando sentono Silvia Panaiatopulos dire “la pizza si mangia con le mani” capiscono che sta per nascere “Non me la menare”. Ricetta perfetta di storytelling.
Lo storytelling ha sempre avuto un ruolo importante, da Buzzati ai nostri anni: saper “raccontare bene” spinge le persone a interessarsi a un determinato tema. Ne ha parlato Valerio Bassan nella sua newsletter, Ellissi, qualche giorno fa.
Se oggi viviamo in una grande crisi di fiducia nei media, è anche perché il giornalismo sta perdendo questa capacità. Si sta desensibilizzando.
La crisi economica del settore, la guerra del click - da cui non siamo ancora usciti - e la competizione per l’attenzione tra testate e social non hanno solo abbassato gli standard giornalistici, hanno anche tolto spazio alle storie.
Si può “fare giornalismo” con le storie? Sì. Ma è anche vero che online c’è tanto contenuto che non riesce a centrare questo obiettivo: e cioè essere utile, ma anche piacevole da leggere.
Continua qui.
Io sono Cristiano Carriero, storyteller, speaker e imprenditore, e questa è L’ho fatto a Posta, la mia nicchia di lentezza in un mondo che corre troppo veloce. La prossima settimana sarò impegnato con il Festival per cui la newsletter non uscirà. In compenso se segui i canali de La Content, potrai seguire il racconto delle due giornate.
La settimana prossima esce anche il mio nuovo/vecchio romanzo: si chiama Domani No reloaded, e sono felicissimo.
Quando Carla Palone mi ha chiamato per dirmi che Domani no, a distanza di 10 anni, sarebbe diventato un audiobook in esclusiva per Audible, ho fatto fatica a crederci. Mi capita quasi sempre di reagire d’istinto alle belle notizie, quindi ho detto di sì senza pensarci due volte. Sono molto legato a questa storia, alle vicende di Ernesto e alle sue canzoni, anche se ho scritto tante altre cose da questa pubblicazione in poi. Poi, quello stesso pomeriggio, ho iniziato a sfogliare il romanzo e ho capito che avrei dovuto rimetterci le mani. “Veronica, quanto tempo ho?”, ho chiesto alla mia editor. “Non saprei, un mesetto? Cosa vuoi fare?”. “Un mese, mi basta. Faremo un reload”. Clic. Non ho aggiunto altro, mi sono rimesso al lavoro per capire cosa avrei dovuto cambiare.
Mi sono accorto che in questi anni Ernesto si è evoluto, esattamente come le sue canzoni. Come me, come il mio linguaggio. C’erano dialoghi in cui non mi ritrovavo più, parole che non userei più nemmeno sotto tortura. Perché le parole sono figlie dei pensieri e dell’educazione, e come io sono diventato più rispettoso, più inclusivo, più femminista, voglio che anche uno dei miei personaggi più cari di sempre lo sia. In questi anni sono anche migliorato molto come autore: ho avuto la fortuna di poter studiare ancora, di lavorare con scrittori e scrittrici di altissimo livello, e mi è sembrata una bella occasione per dare nuova vita a un romanzo che mi ha dato tantissimo, con la convinzione che possa dare, agli altri, ancora di più. Perché tutto è mutevole, anche le storie, soprattutto di questi tempi.
C’è un altro aneddoto: in questo romanzo parlo per la prima volta del Mare a sinistra. “L’autostrada sembrava infinita e tortuosa, sebbene la traiettoria fosse dritta, banale, conciliante. Con la macchina carica di valigie, il telefono muto e il mare a sinistra. E mi pesava quel mare a sinistra, perché non era un’immagine trionfante.” Nel corso degli anni, quella metafora è diventata il simbolo del ritorno a casa, persino della valorizzazione dei talenti da parte della Regione Puglia. Una strategia che porta il mio nome e che inizia da qui, dalle pagine di questo romanzo, una storia dedicata al ritorno, ma anche alla possibilità di avere, al tempo stesso, radici e ali. Tante virtù di questo libro le ho capite con il tempo, ecco perché quella che stai per leggere non è la storia di un cantante di successo, ma quella di un ritorno a casa, con tutto ciò che comporta. In una Bari ancora non instagrammabile, all’inizio di quella che sarebbe stata la primavera pugliese. Questo, allora, non potevo saperlo. Ma ci ho visto discretamente bene, fidati di me.
Ah, l’idea di aggiungere la parola “reload” a Domani no è di Veronica. Ma un bravo scrittore deve saper mistificare bene.
Fa buon weekend, se ci vediamo a Bari sono felice!
La tua scrittura è sempre narrazione, al punto che ti leggo anche quando quello che tratti potrebbe non interessarmi. E in fondo quel mare a sinistra è lo sbocco di una narrazione intenzionalmente diversa, iniziata un paio di decenni fa... Narrazione e intenzione, due leve a cui non voglio rinunciare.