Fenomenologia dell'incomprensione
Serie TV, canzoni, nuovi linguaggi: quando lo sforzo deve farlo chi riceve (e ascolta).
Mia madre – santa donna – mi faceva guardare i film di Massimo Troisi quando ero piccolo. Probabilmente, se mi segui su Facebook, avrai già letto questo incipit in un post dove parlo dell’importanza dell’ascolto attivo. Dello sforzo intellettivo che ci è richiesto per capire qualcosa o qualcuno, non solo quando parla una lingua o un dialetto che non conosciamo. Nel momento in cui andiamo a una mostra e ci soffermiamo davanti a un quadro, non è tutto spiegato. Ci sono persone che guardano solo il soggetto principale, lo stile, i colori. Ci sono altri che restano ore a scandagliare tutti i dettagli e si accorgono di un personaggio che resta lì sullo sfondo, placido e apparentemente inutile. Chi legge romanzi sa che deve avere pazienza, perché non è che tutti i protagonisti sono svelati immediatamente, a volte è una questione di particolari, di hook – si chiamano così – e di tempo che ci vuole per scoprire qual è il loro senso all’interno della trama.
Si potrebbe continuare all’infinito, con esempi che vengono dal mondo del teatro, del cinema, della formazione. Già, la formazione. Ci siamo talmente abituati a non fare sforzi cognitivi che siamo alla costante ricerca di soluzioni semplici – e spesso, per natura, banali – e non ci ricordiamo che per apprendere qualcosa, a scuola come all’università, abbiamo studiato per pomeriggi interi. Almeno io, oh.
Sono partito dai film di Massimo Troisi e dalle mie difficoltà di bambino, quando mio padre diceva a mia madre che non si capiva e lei rispondeva: “E mica bisogna capire per forza le parole. Ci sono i gesti, i movimenti della faccia, il contesto”. Poi è arrivato quel capolavoro di Non ci resta che piangere. Troisi e Benigni insieme. Non c’era nemmeno il VHS per mettere indietro. Allo spettatore – anche al bambino – era richiesto uno sforzo per rimanere dentro la storia. Era come se quei due si divertissero a creare un nuovo codice di comunicazione. Il momento più alto, la lettera al Savonarola.
È così che mia madre mi ha insegnato ad amare i dialetti, le parole sconosciute, i termini che sui libri non c’erano. Pensaci, il nostro linguaggio è pieno di parole che a scuola non impariamo. E per fortuna. Per capire meglio quello che sto per dire, bisognerebbe ripassare – è spiegato molto meglio di come lo sto raccontando io – un saggio di Umberto Eco, “Fenomenologia di Mike Bongiorno”:
"Non provoca complessi di inferiorità, pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo".
Eco esalta Mike per la sua capacità di essere diventato un fenomeno di massa, per essere cioè un esempio di personaggio pubblico conosciuto e ammirato da tutti per la sua semplicità. “Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello”. Il semiologo studia la figura del presentatore e la definisce un’icona dell’Italia del boom economico. “In ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare mediocrità e immediatezza. In lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica”. La figura tratteggiata da Eco è assolutamente singolare e ricca di ammirazione. “Mike – conclude – non si vergogna di essere ignorante di fronte agli esperti, con il suo basic italian riesce a farsi capire da tutti”.
Scuola e TV hanno insegnato alla nostra generazione due linguaggi differenti. La controcultura è arrivata grazie a programmi come Quelli della notte, Avanzi, Indietro Tutta! e Mai dire Gol. Erano queste le trasmissioni che più di tutte si allontanavano dal basic italian, quelle che creavano nuovi linguaggi, anche a costo di qualche sforzo di comprensione da parte del ricevente. E ancora, la commedia di Eduardo che guardavo in videocassetta con la mia amica Licia (oggi pluripremiata regista di teatro), i Tazenda a Sanremo con Pierangelo Bertoli – “In mesu a sa zente, in mesu a s’istrad dimandende” –, l’interpretazione di Angela Finocchiaro quando fa la sciura milanese in Benvenuti al Nord.
Quando, la prima volta che abbiamo guardato Gomorra, Eleonora mi ha detto che non capiva, ho provato a convincerla – come fece mia madre con Troisi – che era un problema nostro. Che noi dovevamo entrare in quel mondo, capire le parole, fare uno sforzo in più. Ascoltare con un orecchio diverso canzoni come E Chiammalo di Anthony o Ancora Noi di Alessio. Visto che ultimamente ci siamo guardati persino una serie in coreano – Squid Game – e certe volte, dalle movenze dei personaggi, potevamo persino riuscire a immaginare il pathos dei discorsi, non vedo – alla fine di questo mega pippone – quale sia il problema nello sforzarsi a seguire il romano (non il romanesco) di Zerocalcare. Che poi per me vale lo stesso per il lumbàrd di Davide Van De Sfroos, ma io sono un caso a parte.
La comprensione del testo è spesso – e soprattutto – comprensione del contesto
Poi certamente non tutti hanno la pazienza e l’umiltà di aprirsi alle molteplici possibilità del linguaggio: però, visto che la settimana scorsa abbiamo parlato di uscire dalla propria zona di comfort, questo mi sembra un ottimo esercizio. Guarda un programma in un dialetto o in una lingua diversa, ascolta un album intero che non hai mai sentito, una canzone in napoletano, in sardo, in milanese. Prova a cantare “Oh mia bela Madunina”, a imparare a memoria una strofa dei Tazenda o di Yanez.
Ah, la serie di Zerocalcare su Netflix mi è piaciuta tantissimo. Ma questo si era capito. E non è questa la sede per commentarla, visto che lo hanno fatto in molti prima di me: mi basta aggiungere che i nuovi linguaggi mi entusiasmano e Michele Rech (aka Zerocalcare) è riuscito prima a sdoganare il fumetto in libreria, poi a portare le strisce su una piattaforma di streaming mainstream; infine, a far ridere legittimando il dolore. Il resto sono scelte di un artista: si accettano e si godono e, se non si comprende ogni singolo termine, pazienza.
Ti chiedo, allora: qual è il tuo rapporto con il linguaggio e con la comprensione? Mi piacerebbe sapere se hai qualche esperienza da raccontarmi e se credi anche tu che la comunicazione non sia solo una responsabilità del mittente – i social hanno portato questa giusta teoria all’eccesso, a mio parere –, ma anche di chi riceve.
Io sono Cristiano Carriero, questa è L’ho fatto a Posta e, se non ti ho ancora augurato un buon fine settimana, lo faccio adesso.
P.S. La vedi questa tabella relativa al numero di utenti unici mensili dei principali editori iscritti ad Audiweb? Bene, quel Bytedance al quattordicesimo posto sarebbe TikTok. Nel cerchio, i minuti spesi per persona al mese. Quasi il triplo della Rai – che non è messa male, anzi, ha anche valori molto alti grazie agli Europei di calcio. Caso mai servissero indicatori per spiegare cosa voglia dire “vincere la battaglia dell’attenzione”.
P.P.S. Cosplayer di Marracash è la mia canzone preferita del momento!
Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi
O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere
Non possiamo ancora essere poveri
Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?
È tutto, fatti sentire!