Generazione Erasmus, vent'anni dopo
Dove si parla di moltitudini, della promessa europea, di gallego e spagnolo, di feed Instagram alla deriva e di purpose personali.
Vent’anni fa partivo per l’Erasmus, direzione Santiago de Compostela.
Mi iscrissi a un corso di spagnolo all’Università di Bari e iniziai a studiare i fondamentali della lingua; poi, arrivato a Santiago – senza valigia, perché nel frattempo l’avevo già persa nel cambio a Roma –, la sorpresa: i miei coinquilini non parlavano castigliano, ma gallego. Erano quattro indipendentisti: Carmen, Rebecca, Paulo (all’anagrafe, Pablo) e Xende. Durante la nostra prima cena, mi spiegarono che all’università avrei avuto modo di imparare la lingua dei conquistadores, ma che in casa l’idioma ufficiale sarebbe stato quello della madrepatria: la Galizia. A fine cena, mi dissero anche di procurarmi un paio di Chiruca, le loro scarpe da pioggia preferite: “Sai com’è, qui piove 250 giorni all’anno”.
Ho subito adorato quel posto, avrei dato non so cosa pur di essere accettato. Quel caos era lo stesso che da sempre regnava dentro di me. Non c’era differenza tra i loro battibecchi e quelli che avevano luogo nella mia testa da quando ero bambino.
Nemmeno un mese e iniziai anche io a rispondere, a chi mi chiedeva come andasse in Spagna, che io non mi trovavo affatto in Spagna. Niente paella, niente siesta, niente corrida, niente olè, niente Flamenco. Poco calore, molta acqua. In compenso, mi ero iscritto a un corso di pandeireta, avevo imparato ad amare le empanadas e il licor cafè, la domenica andavo a vedere il Superdepor a La Coruña e ogni sera mi fermavo con i miei compagni di piso (appartamento) a parlare gallego. Loro mi insegnarono anche a usare la @ per il maschile e il femminile a/o, spiegandomi l’importanza del linguaggio inclusivo, della diversità e del femminismo, il rispetto per le minoranze (anche quelle linguistiche).
Per chiudere la pratica laurea in Italia, dovevo tornare con tre esami da quell’esperienza: letteratura comparata, geografia del turismo (un corso che oggi verrebbe chiamato “Local marketing”) e geografia politica. I primi due erano in spagnolo; quando il professore di geografia politica annunciò che il suo corso e il relativo esame si sarebbero tenuti in gallego, sentì rumoreggiare gli altri studenti Erasmus nell’aula. Io, invece, risparmiai fiato e moti di insurrezione. Provai anche un certo piacere – devo ammetterlo – a essere l’unico che nel tempo libero praticava la lingua repressa dai colonizzatori.
Un giorno avrei abitato in questa città, percorso le sue strade, fin dove lo sguardo si perdeva; avrei esplorato questi palazzi, vissuto delle storie con questa gente. Vivendola, la città, questa strada l'avrei imboccata dieci, cento, mille volte.
Quando parliamo di Generazione Erasmus, parliamo di tutto questo
Ragazzi e ragazze che partivano senza troppe informazioni sul luogo, che dovevano cercarsi una casa entrando nei bar e nelle aule delle Facoltà, che potevano comunicare con l’Italia con una scheda Columbus (carissima) o pagando un’ora di connessione in un Internet point per accedere all’email o a Messenger. Le citazioni che ho usato in queste righe sono tratte dal film L’appartamento spagnolo. Una pellicola che proprio in questi giorni compie vent’anni, che oltre a una colonna sonora meravigliosa (No surprises dei Radiohead), contiene tantissime verità sull’esperienza che ha cambiato la vita di tanti di noi.
La più bella è certamente questa:
Sono francese, spagnolo, inglese, danese. Non sono uno, ma una moltitudine. Sono come l'Europa. Sono tutto questo. Sono il caos.
Abbiamo il dovere di restare quella moltitudine, con le nostre unicità, le nostre differenze, con il nostro caos. Con le lingue e dialetti, con le tradizioni e le tipicità. Europei in grado di non perdere mai le proprie radici.
Ci sono tantissime cose che vorrei scrivere ancora su quel viaggio iniziato vent’anni fa e mai davvero finito. Ed ecco perché mi piacerebbe raccogliere le storie di tutte le persone che leggono questa newsletter in un podcast dal titolo Moltitudini – Generazione Erasmus.
Se hai piacere, mandami la tua idea di storia (e di esperienza) a cristianocarriero@gmail.com.
Hai tempo fino al 15 febbraio, indicami anche la città di cui vorresti parlare e una cosa che hai imparato allora e che è diventata importante per il lavoro che fai oggi!
Che fine ha fatto il feed di Instagram?
(tratto da un mio post su La Circle)
Immagina che l’Inter sia un’azienda. Be’, in effetti – come tutte le squadre sportive – lo è. L’Inter ha partecipato a un evento e lo ha vinto. Qui è vietatissimo parlare della partita, del risultato, farci ingannare dal tifo. Dimentica.
Diamo invece un’occhiata al feed:
Potrei scrollare per altre 5-6 colonne. E ogni post riguarda la partita dell’altra sera.
Un paio di anni fa, forse anche uno, sarebbe bastato 1 carousel con le foto più significative della gara (sul resto “Facciamo delle Stories”), qui conto, a oggi, 45 post nel feed. Al Social Media Manager è sfuggita la situazione o il feed non conta più nulla?
A te la sentenza.
LinkedIn sta vivendo un momento d’oro?
Sono stato intervistato da Alberto Cantoni de Linkiesta, a proposito di LinkedIn. La piattaforma nata per sviluppare le reti professionali dei propri utenti è stata scaricata 58,4 milioni di volte nel mondo a causa del massiccio esodo di lavoratori tech e non solo, soprattutto negli USA. In Italia, la crescita della piattaforma è dovuta invece principalmente alla necessità delle persone di voler cambiare la propria situazione economica e di poter lavorare da un posto più gratificante. Ne parlo in questo pezzo.
Offerte di lavoro
Nugnes cerca un Head of Ecommerce (via Mattia Devoti su La Circle).
Errepi Net cerca un Social Media Manager (via Rossana Turi).
Gusto17 cerca un Brand Marketing Assistant in stage (qui il link per candidarsi).
Trovare il proprio purpose
È uscito il libro di Giulio Xhaet, Da Grande. Sono molto contento perché ne ho seguito la genesi assistendo al suo speech ad ABCD e portandolo in prima serata con Nicolò Andreula a The neverending storytelling. È un libro fatto di domande generative per comprendere che non è mai troppo tardi per capire chi potresti diventare.
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.
P.S. Abbiamo superato i 2000 iscritti per cui, se vuoi propormi offerte di lavoro da condividere o progetti di cui vale la pena parlare, sai dove trovarmi. Li sceglierò con la consueta cura editoriale che ha permesso a questa newsletter di diventare una delle più lette nel panorama del digital. Fine del momento autocelebrativo – era doveroso. Ti auguro un buon weekend!
Grazie Cristiano, mi hai messo voglia di rivederlo. Per me che sono più piccolo, al liceo lo guardavo sognando l’Europa e l’Erasmus. E sperando di non perdere mai lo sguardo da sognatore.