Gratitudine e salvezza
Dove si parla del giorno in cui sono rimasto in modalità aereo, delle storie infinite, di help, di vulnerabilità e di Fabriano. Di chi ci mette la faccia e di chi ci mette il corpo.
Ieri sono stato tutto il giorno in modalità aereo.
È un lusso che non mi sono mai potuto permettere. Pare che il mio personal branding reciti proprio così: sempre a disposizione. Con la scusa del multipotenziale, ho sempre pensato che un flusso continuo di stimoli, da più parti, mi aiuti a mantenere alto il livello di creatività. E poi ho tanta fiducia in me. Troppa. So gestire, so prendere il tempo giusto, so ricordare – difficilmente dimentico un impegno – e sono cresciuto con l’ossessione che nessuno debba aspettarmi troppo. È il motivo per cui, piuttosto che fare tardi a un appuntamento, arrivo mezz’ora prima. Quello per il quale se non rispondo a qualcuno, il giorno dopo chiedo scusa.
Ma è una vita che chiedo scusa, di cosa poi?
Sono stato in modalità aereo perché avevo bisogno del mio tempo, di metabolizzare l’ultima settimana: i successi e le delusioni, i complimenti e le parole che non avrei voluto sentire.
Ho il cuore colmo di gratitudine
E la gratitudine è un sentimento strano. La senti quando trabocca, quando non riesci più a trattenerla, e allora dire grazie non basta. Devi telefonare, devi abbracciare, devi scrivere, perché scrivere è l’unico modo per tirare davvero fuori tutto. E per farlo restare. Per dare una forma a ciò che proviamo, la forma delle parole. La settimana scorsa, L’ho fatto a Posta non è uscita perché ero impegnato sul palco di “The Neverending Storytelling”, l’evento de La Content.
Quando ho scelto gli speaker, sapevo di aver contattato grandissimi professionisti e persone straordinarie, ma non pensavo – lo dico sinceramente – lo fossero così tanto. Persone che «credono negli esseri umani» come Simona Ruffino o donne come Alice Orrù che, davanti all’ennesimo volo cancellato, mi ha detto: «Io voglio partecipare comunque e ci sarò». E ancora come Esther Intile che, pur di arrivare Bari, si è fatta sette ore di treno o come Fabrizio e Davide che hanno preso un’auto a noleggio guidando da Bari alle Marche o da Bari a Catania.
E poi Andrea Fontana, che non sta bene e ha voluto regalarci tutta la sua vulnerabilità. Non ci sarebbe stato evento né bellezza senza di loro.
[Ho bisogno di qualcuno, non di uno qualsiasi]
«C’è una canzone dei Beatles – ha scritto Andrea Fontana su LinkedIn – che avrete ascoltato un milione di volte. Si intitola Help. Siccome ha un ritmo veloce, sembra una canzone allegra, almeno così l’ho sempre percepita io, al di là del testo.
Ma studiando e preparando uno speech per l’evento de La Content, ho compreso altro. E ho capito quanto poco avessi riflettuto sul testo.
John Lennon l’aveva pensata come ballata triste, riflessiva, introspettiva, nostalgica. Una dichiarazione di fragilità! I produttori lo avevano costretto ad accelerarla per renderla – nonostante il testo – fruibile a livello pop:
Aiuto! Ho bisogno di qualcuno
Aiuto! Non di uno qualsiasi
Aiuto! Sai, ho bisogno di qualcuno, aiuto!
Quando ero più giovane, molto più giovane di adesso, non avevo mai bisogno dell’aiuto di nessuno, in nessun modo, ma ora quei giorni sono andati e non sono così sicuro di me […]
Aiutami, se puoi, mi sento giù
E apprezzo molto che tu sia qui.
Non sono potuto andare fisicamente – prosegue Andrea – sul palco perché “mi sento giù”. In questi mesi non sto bene. Il mio corpo – dopo il Covid – è diventato più fragile. E ha bisogno di più attenzioni e cure rispetto a una volta.
Grazie, Cristiano, perché mi hai emozionato. Perché ci hai messo tu il corpo. Perché, quando c’è comunione di storie, ogni barriera viene superata e anche chi ti ascolta ti segue. Ho avuto bisogno di te e tu non sei stato uno qualunque. Hai ragione: insieme con il pubblico è stata una liturgia».
Io ci ho messo il corpo, è vero. La faccia non bastava, mentre la connessione andava a scatti e il mio maestro non poteva vedere i volti del pubblico. E allora ho preso la sedia, l’ho messa al centro del palco e mi sono seduto lì, senza giacca e con le maniche della camicia arrotolate. Sulle note di Help, ho lasciato che gli spettatori guardassero me: la mia faccia provata, il mio fisico come scudo ai chili persi dal mio maestro in questi mesi di cure. Andrea ci ha messo la sua vulnerabilità. E quando l’ho chiamato “maestro”, lui mi ha risposto che «lavoriamo tutti per diventare maestri». Ma intanto possiamo essere felici di essere ottimi allievi.
Ho vissuto tanti altri momenti stupendi su quel palco, il mio palco ormai. Ho ascoltato Giorgio Poeta, un apicoltore, parlare di confini. E partire dalla stessa città dalla quale sono partito io quando ho iniziato a lavorare: Fabriano. Sono felice, e grato, di aver portato Fabriano in Puglia, a Bari. Quando sono partito per le Marche, non pensavo minimamente che quasi vent’anni dopo ci saremmo ritrovati a un evento come questo a raccontarla. A parlare di fogli A4, di Indesit, di vocazione industriale e delocalizzazione. Fondamentalmente a parlare di futuro. Perché Fabriano ha un futuro e, anche se siamo gli unici a pensarlo, è bene che questo pensiero non resti nei confini di un teatro.
Di grazie ne ho ancora tanti: a Pegah, per aver avuto il coraggio di portare la questione iraniana da noi, a Licia Lanera che è intervenuta con un monologo dei suoi, a Bianca Chiriatti che ha raccontato di quella volta in cui ha perso le parole. E a tutti quelli che hanno dedicato dieci, venti minuti o mezz’ora a scrivere un pensiero per fissare per sempre questo ricordo. Il ricordo di una cosa bellissima, che rifaremo molto presto.
Forse in maniera diversa, perché non sono sicuro di essere stato un bravo moderatore. Il mio modo di stare sul palco non è più, probabilmente, all’altezza dell’evento. Ci penserò, ci rifletterò, capirò dove posso migliorare. Mi sono scusato con alcune persone del mio team per non averle presentate come avrebbero meritato, ho ringraziato più volte il pubblico e non smetterò mai di farlo perché sono certo che senza i partecipanti – riduttivo chiamarli spettatori – gli eventi non esistano. E questo non sarebbe esistito.
Le giornate successive sono state difficili. Con molta probabilità perché siamo talmente ossessionati da ciò che facciamo che, mentre tutti scrivevano cose belle su di noi, sul clima, su quello che avevano provato, e mentre i relatori dicevano cose meravigliose sull’evento, noi eravamo concentrati su ciò che non aveva funzionato.
Senza nemmeno goderci per un attimo i festeggiamenti, senza nemmeno fare un brindisi
Fare le cose per bene, al meglio, deve essere un obiettivo, non un’ossessione. Ecco perché mi sono preso un giorno in modalità aereo, per godermi il silenzio e la bellezza che non ho potuto toccare.
Io sono Cristiano Carriero, e questa è L’ho fatto a Posta.
Un ringraziamento doveroso a Cosetta, che è venuta a Bari con le mie newsletter stampate, dicendomi persino quali sono le sue preferite.
Un grazie a Pippo Mezzapesa per aver girato Ti mangio il cuore.
Ringrazio Daniele Mencarelli per aver scritto Tutto chiede salvezza.
E Francesco Bruni per averlo reso una serie TV che mi ha fatto commuovere, piangere e pensare che è questa l’altra parola che cercavo: salvezza.
Da oggi torno online, promesso.
Mi hai commossa, davvero. I miei sono mesi di pausa, per tornare tra qualche tempo a metterci il corpo, la penna, la tastiera. E farlo bene. Mi sono presa dei mesi in "modalità aereo", mesi dove ho cambiato tutto per fermarmi e riflettere, senza mai smettere di camminare e raccogliere. Presto tornerò alla me di prima ma sarò spogliata delle negatività e vestita di tanta voglia di ri-metterci la faccia. Gratitudine, tanta, per questa tua newsletter.