I fiori sanno sempre ripararsi dalla vergogna
Dove non si parla di Blanco, ma di conflitto generazionale, di celebrity marketing, di pubblicità aderente al contesto, di quanto sia brava Pegah e di network vs community.
Le rose profumano, non sanno che è il loro mestiere, le nonne imbiancano soltanto per dovere. Sono tempi scuri in cui è difficile trovare ombre, i fiori sanno sempre ripararsi dalla vergogna. (Bandabardò, Fuori Orario)
In questa newsletter non parlerò di Blanco
Come spesso accade sui social, in tre giorni si è scritto tutto e il contrario di tutto. Se c’è una cosa che piace davvero tanto a Meta è lo scontro generazionale. Sappiamo benissimo che più la discussione diventa polarizzata e polarizzante, più l’algoritmo è felice e gli inserzionisti guadagnano. Da questo punto di vista, Sanremo è una manna dal cielo anche per Facebook, specialmente quando si accende lo scontro tra la Generazione X, i baby boomer, i Millennial e la Gen Z.
“A cinquant’anni anni ho imparato come si fa, a vent’anni non lo avrei saputo fare”, ha detto Gianluca Grignani, fermando la sua esibizione due sere dopo per un (presunto) problema in cuffia.
Ed è su questo che vorrei soffermarmi.
Io non sono un opinionista, ognuno è libero di guardare, interpretare, discutere – animatamente, ma con educazione. Nel gesto di Grignani ci ho visto molte cose: la riabilitazione del ragazzo, la malinconia per il tempo andato, ma anche il sollievo perché certi tempi non torneranno più – “… quando domani ci accorgeremo”, canta De Gregori in Viaggi e Miraggi, “che non ritorna mai più niente, ma finalmente accetteremo il fatto con una vittoria” –, la voglia di dimostrare che si può fare uno show anche ringraziando chi lavora dietro le quinte, il desiderio di non perdere mai il contatto con il pubblico. La pazienza verso i più giovani. È come se Grignani avesse detto: “Io avrei fatto di peggio”. E in effetti lo ha fatto, ma mai su quel palco. Perché io Grignani a vent’anni me lo ricordo, quando cantava Destinazione Paradiso e ringraziava commosso il pubblico.
È tutta una scena, non lo hai capito? – dicono.
Assolutamente sì, l’ho capito. Ma quello che non hanno capito in molti è che a noi non interessa cosa sia vero e cosa falso, noi non lo prendiamo nemmeno in considerazione fino a quando non arriva qualcuno a dircelo. Per quel tipo di storytelling c’è già il wrestling. Lo hai mai visto il wrestling? Ci sono i buoni (face), i cattivi (evil), i copioni (America contro Iraq), le sedie spaccate sulle schiene, il sangue, le botte. Gli spettatori pagano un biglietto per vedere uno spettacolo finto, ma il copione è talmente appassionante che scatta la sospensione dell’incredulità: si tifa, ci si arrabbia, ci si dispera. Non so se Sanremo sia diventato come il wrestling, ma continuo a pensare che agli spettatori non importi cosa sia vero e cosa finto: importa cosa sentono e cosa provano. E tutto viene amplificato quando il “problema” è un problema quotidiano.
Educazione vs Perbenismo
E questo della lotta generazionale lo sta seriamente diventando. Non ci capiamo più in casa, a scuola, a lavoro – soprattutto a lavoro. Valori diversi, opinioni diverse, gratificazioni (molto) diverse. Sono tempi scuri, in cui è difficile trovare ombra. Molti leggendomi staranno pensando “Ma senti che moralista questo”, senza leggere tra le righe che, in tanti casi, noi adulti abbiamo torto marcio, ma credo invece che viviamo un’epoca talmente polarizzata che abbiamo confuso definitivamente l’educazione con il perbenismo, ed è un peccato. E in tutto questo Blanco non c’entra davvero nulla. Blanco è un artista talentuosissimo e un ragazzo incredibilmente bravo. Non dimentichiamoci che di Sanremo è il campione uscente: ha vinto la scorsa edizione anche perché il suo atteggiamento, la sua educazione e il suo modo di fare erano piaciuti anche alla Generazione X e ai baby boomer.
Tutta la kermesse – volevo usare la parola kermesse a tutti i costi – gioca sul tema delle generazioni. Con la scelta di cantanti in gara, si va da Olly ai Cugini di Campagna, con l’opportunità di portare per la prima volta su quel palco Chiara Ferragni, 36 anni. Millennial, per l’anagrafe. Amadeus è molto bravo a mettere d’accordo le generazioni, perché è stato giovane. E non è una cosa scontata. Così come Gianni Morandi è stato un ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones e che si faceva mandare dalla mamma a prendere il latte, con Sangiovanni. E questo aiuta a far dialogare le generazioni. Senza andare troppo lontani, Pippo Baudo e Mike Bongiorno avevano un atteggiamento molto più paternalistico e creavano distanza con i giovani (il che non vuol dire che non ne abbiano lanciati, anzi, ma sempre ricordandoci che l’avevano inventato loro). Dal momento che oggi il Festival è multipiattaforma, è bene che ci siamo i Pooh come Gianmaria. E che l’ironia sui giovani la faccia Fiorello, che una trentina di anni fa – come passa il tempo –, a suo stesso dire, partecipò al Festival in preda a un delirio di onnipotenza che lo portò a bucare completamente l’esibizione nella serata finale, in cui era favorito (con tanto di storico litigio con Anna Falchi che, all’epoca, era la sua fidanzata). Fu lui il vero ribelle del 1995, non Gianluca Grignani. Questo giusto perché ho una memoria storica che scansateve proprio.
Celebrity marketing
L’accoppiata televisione + influencer marketing sarà un tema importantissimo in futuro: il profilo di Amadeus @amadeusonoio, aperto in diretta da Chiara Ferragni la prima sera del Festival, registra già 1 milione di follower (in aumento), una media di 900.000 like a post e la spunta blu più veloce della storia di Meta. I social e gli influencer devono molto a Sanremo, ma è vero anche il contrario. Faccio fatica a immaginare cosa sarebbe oggi il Festival di Sanremo senza Facebook, Instagram, Twitter, TikTok. Non per niente, nel 2008, gli ascolti erano in calo, e se oggi abbiamo un Festival è perché c’è la possibilità di diventare tutti, almeno per una settimana, critici e opinionisti. Per pura curiosità sono andato a rivedermi i vincitori delle edizioni degli anni più complessi del Festival: nel 2006 è stata la volta di Povia (Vorrei avere il becco), nel 2007 di Simone Cristicchi (Ti regalerò una rosa), nel 2008 di Giò di Tonno e Lola Ponce (Colpo di fulmine), nel 2009 ha vinto Marco Carta (La forza mia) e nel 2010 Valerio Scanu (Per tutte le volte che). Se dico che sono state edizioni “dimenticabili” non credo di fare torto a nessuno. È evidente che i social media abbiano dato un nuovo, e forse imprevisto, vigore alla baracca.
E adesso la pubblicità
Lo spot di Netflix proposto durante Sanremo sfodera qualcosa a cui non siamo abituati: il fairplay. Netflix parla di sé riconoscendo la grandezza del Festival.
“Un anno di nuove storie in arrivo. Ma non questa settimana”. Bello vedere che si può fare storytelling anche così (considerazione di Silvia Schiavo, docente Holden).
Ma, in generale, tutte le pubblicità che passano durante il Festival sono contestualizzate. Si va da BMW, che invita ad ascoltare il suono (silenzioso) delle nuove auto elettriche, all’azienda di poltrone che fa sedere Beppe Vessicchio, fino a Paramount che rispolvera la signorina buonasera degli anni Sessanta, salvo ricordarci poi – contronarrazione – che, ok, questa è la settimana di Sanremo, ma dalla prossima puoi tornare a vedere la TV on demand, all’orario che vuoi.
Ho parlato più volte della necessità di contestualizzare lo storytelling pubblicitario. Non è una cosa confondere con il real time marketing, quello è molto diverso. Qui si tratta di adattare il tono di voce della nostra comunicazione al media e allo show che gli spettatori stanno vedendo. Se interruzione deve essere, che sia contestualizzata. Non basta più chiedere al conduttore di raccomandare di non cambiare canale. Attenzione che non è una questione che riguarderà i grandi brand che vanno a Sanremo. Ma tutti noi con le nostre newsletter, i podcast, le promo che faremo sui social.
Io sono Cristiano Carriero, e questa è L’ho fatto a Posta. Prima di augurarti buon fine settimana, condivido con te una parte del mio prossimo TedX che terrò a Rovigo sulla Post Social Media Era (18 febbraio) e una riflessione sulle community.
Il prossimo decennio sarà definito dal consumo consapevole. In questa emergente era post-crescita, il successo premierà le piattaforme e le comunità che ci permetteranno di controllare i nostri feed e l’assunzione di informazioni, anziché tenerci attaccati ai nostri schermi a tutti i costi. Nell’era post-sociale, ci proponiamo di recuperare le esperienze collettive nello spazio fisico e digitale. I terzi luoghi, gli spazi in cui ci si incontra per svolgere una certa attività e passare del tempo insieme, diventeranno fondamentali per far vivere alle persone il tempo e lo spazio.
Non è più una lotta tra generazioni.
Ci hanno definito boomer, hanno delineato i confini che separano in maniera distinta i Millennial – quelli del muro di Berlino per intenderci – dalla generazione Z, quelli del green, dell’inclusione; ma non ci siamo resi conto che i social media non facevano altro che esasperare questa distinzione. Sono nati così i gruppi dedicati al passato, i “ma che ne sanno i 2000”, operazione nostalgia, la polarizzazione estrema del linguaggio. Cringe, come le nostre parole, la nostra ansia di paternalismo (e maternalismo, visto che ci siamo), il voler spiegare a tutti i costi come si sta a questo mondo, come si sta nel mondo del lavoro su LinkedIn, che cos’è e cosa non è l'educazione. Il prossimo decennio dovrà necessariamente essere inclusivo, anche dal punto di vista dell’utilizzo delle piattaforme, e della gerarchia delle stesse. Stiamo già assistendo a un grande ritorno di comunicazioni più personali come le newsletter, il riflesso di un cambiamento più ampio, in cui le persone si rendono conto del potere di creare una connessione con un pubblico che possono raggiungere al di fuori delle piattaforme di social media guidate da algoritmi.
Molto network e poca community
If you want to understand the difference between a network and a community, ask your Facebook friends to help paint your house.
Una componente fondamentale della crescita avviene con il confronto, con lo scontro, con l’incontro con l’altro. Ricevere i contenuti altrui senza averli scelti, interagire in modo pressoché passivo con un “Mi piace” o un commento non è relazione e non è confronto: semplicemente è contatto, connessione. È utile? Certo che lo è. Si può andare oltre? Credo di sì. Certo, partecipare ha un costo, in termini di tempo, di energia, di confronto con i propri limiti e le proprie insicurezze, ma come crescere altrimenti?
Il network è contatto, la community è partecipazione
Ah, una cosa molto bella di cui sono tanto felice. Meno di tre mesi fa, Pegah Moshir Pour ha portato la rivoluzione iraniana e le lotte per i diritti umani sul palco de La Content, a Bari. Io e Pegah non ci conosciamo da una vita, ma tutte le volte che abbiamo parlato ci siamo scambiati idee, desideri, visioni. L’altra sera l’ho ascoltata parlare di donne, vita e libertà insieme a Drusilla Foer dal palco più importante d’Italia: l’Ariston.
Ha commosso tutti parlando di diritti umani e digitali, di Iran e censura, repressione e e libertà (agognata). Non so come dirtelo, ma aver già sentito parte di quel discorso a casa mia, sul nostro palco, mi ha fatto pensare che stiamo davvero andando dalla parte giusta. Di una formazione che sia qualcosa di molto più partecipativo, inclusivo nel vero termine della parola, nuovo perché “innovativo” mi sta sul cazzo.
Non c’è palco – parole di Leandra Borsci – troppo piccolo che non possa accogliere questi temi, è vero. Ma Sanremo è Sanremo, anche per questo. L’orgoglio è un sentimento che non mi fa impazzire. Per una amica si è felici, più che orgogliosi. Grazie Pegah, e grazie a te che sei arrivato a leggere fin qui.