Il coraggio di uscire (e di restare)
Il nuovo significato della zona di comfort e perché la produttività passa da un corretto equilibrio tra abitudine e cambiamento. Anche quello che ci imponiamo.
“Ho sperimentato che, se non continuo a testare i miei limiti, la mia zona di comfort si restringe. Le sfide che mi erano sembrate comode un anno hanno richiesto coraggio per essere realizzate l'anno successivo. Non voglio trovarmi di nuovo in quella posizione”.
Philippa Perry, in “How to Stay Sane” affronta, da una stimolante prospettiva, l’argomento della zona di comfort. Nell’ultima settimana ho viaggiato, cambiato ufficio, ora di pranzo e di colazione; ho persino messo in atto due digiuni intermittenti – lo faccio quando la sera prima mangio più di quanto dovrei – e mi sono reso conto che le abitudini sono qualcosa di molto positivo, se siamo disposti anche a cambiarle. Il lockdown ha senza dubbio contribuito a consolidarne alcune e a renderci più pigri. Oggi, ci penso sempre due (a volte anche tre) volte, prima di intraprendere un viaggio di lavoro. Un po’ perché ancora non mi sento del tutto sicuro, molto perché sono restio a sacrificare ore di produttività e scambiarle con tempo da passare in treno, in autostrada o in aeroporto.
Se la matematica non è un’opinione, il mio attuale ragionamento dovrebbe rendermi più produttivo
Di sicuro, rispetto a due anni fa, il mio tempo per l’hard work si è moltiplicato. Prima lavoravo – intendo da desktop, concentrato, senza interruzioni – circa due giorni a settimana. Gli altri erano dedicati a viaggi, riunioni, incontri, appuntamenti, clienti in ritardo, varie ed eventuali. Oggi, dopo la pandemia, posso dire che quel tempo è raddoppiato. È tutto oro quello che luccica? No.
L’abitudine alla zona di comfort mi ha reso più sicuro: sento di avere molto più controllo del lavoro rispetto al periodo in cui dovevo chiamare i miei collaboratori dal treno e chiedere loro di inviare un’email al posto mio. Mi sento meno esposto a errori, posso riguardare con maggiore attenzione quello che faccio, organizzarmi meglio con l’agenda. Eppure, credo sia corretto pormi una domanda: è davvero questo il senso del mio lavoro? Mercoledì pomeriggio, sono stato a un evento in centro, a Bari. Casualmente ho incontrato una persona con la quale ho chiacchierato a lungo e che mi ha detto di voler diventare mio cliente. Tornando verso casa, a piedi, mi sono fermato in una libreria e mi sono imbattuto nel libro che ha dato il La a questa newsletter. L’ho sfogliato, comprato e, mentre uscivo, ho avuto un’idea per la copertina del mio.
Bonus track citazione: “Oggi ho messo la giacca dell’anno scorso, che così mi riconosco. Ed esco” (Altrove, Morgan)
Tecnicamente, ho lavorato? No. Eppure sono stato produttivo: sono tornato a casa con un cliente, uno spunto e ho partecipato a un evento che potrebbe portarmi – nel giro di qualche settimana – un progetto ancora più grande. Per farlo, ho dovuto forzare le mie abitudini, uscire dalla zona di comfort che da qualche tempo mi sono autoimposto, mettere in stand by due progetti urgenti – ma cosa non lo è – che hanno dovuto attendere il giorno dopo. È quello che accade quando scrivo un articolo o una newsletter, quando mi fermo per scrivere un capitolo di un libro, quando faccio formazione o quando dedico due giorni al mese alle relazioni.
Si chiama soft work: è, a mio parere, necessario più che urgente e si può stimolare anche con azioni pratiche. Per esempio, pianificando – questa cosa la dice il mio amico Luca La Mesa già da qualche anno – uno spazio per poter studiare. Allo stesso modo, si potrebbero mettere in agenda tre o quattro giornate in un mese da dedicare a viaggi, relazioni, eventi, ispirazioni. Se non lo facciamo, rischiamo di appiattirci e di non fare bene il nostro lavoro di comunicatori. E se anche il tuo fosse un altro lavoro, fidati che rischieresti comunque di farlo male.
Lo sai che non sono più veloce come un tempo a fare le valigie?
Una volta ci mettevo dieci-quindici minuti, oggi le faccio meno spesso e non sempre so dove cercare quello che mi serve. Quando ho letto “Il magico potere del riordino” di Marie Kondo, ho deciso di applicare alcune sue teorie. Per esempio, io ho tanti beauty case quanti borsoni e valigie. Stessa cosa vale per i caricabatterie, per le ciabatte, per i pigiami. Sono piccole cose, ma aiutano a sentirsi meno pigri e più pronti in caso di viaggi. Fanno risparmiare tempo ed energie. Ho poi deciso che, se devo fare delle call, le pianifico quando sono da desktop, mentre se devo incontrare gente, non ci sarà spazio per chiamate da remoto. Sto provando a portare questa mentalità a La Content: incontratevi quando dovete parlare, confrontarvi, lavorare insieme, state soli se dovete fare call o un lavoro che richieda silenzio e concentrazione. Se il vostro lavoro è fatto solo di una o dell’altra cosa, fate delle valutazioni.
Forse il tuo ruolo lo impone – e allora va bene – oppure semplicemente non vuoi abbandonare la zona di comfort. E questo è un peccato, perché il nostro è – e sarà sempre di più – un lavoro liquido, che richiede forme diverse e persino luoghi differenti. Per me, stare a Jesi o a Bari non è lo stesso: nelle Marche, mi sento più concentrato, propenso a scrivere e meno distratto; in Puglia, sono più incline alle relazioni, a uscire, a incontrare persone. Credo proprio che proporrò alle persone che collaborano con noi di fare smart working almeno due settimane all’anno in posti (e in due periodi) diversi. Sarebbe un bellissimo esperimento vederli lavorare dall’Inghilterra, dalla Spagna, dalla Germania. Quando sarà di nuovo possibile, ovviamente.
Tre cose che mi hanno emozionato
Sicuramente Valentino Rossi. Non sono un appassionato di motociclismo, credo di aver visto tre gare in dieci anni. Però Valentino è un po’ come Baggio e Senna, uno di quelli che ti fa pensare che non sarà più domenica. Paradossalmente, ho imparato ad apprezzarlo molto di più negli ultimi cinque anni, quelli in cui, di fatto, non ha vinto mai. Lo hanno reso più umano. Un Peter Pan che non vuole abbandonare la sua Isola ed è bello che questo ritiro avvenga in concomitanza con la paternità, che – tanto per cambiare – arriva in ritardo. Mi piacerebbe anche pensare che Vale non sia andato poi così veloce, negli ultimi tempi, perché ha definito una nuova e comprensibilissima scala di priorità.
Mi ha emozionato anche vedere Vita da Carlo, ma non per la serie in sé, ma per il rapporto dell’attore con Roma: “Ma io avrò diritto a passare almeno una giornata tranquilla nella mia vita?”, dice a un certo punto Verdone.
E subito il pensiero va a Francesco Totti che, nel documentario a lui dedicato, afferma: “Il mio sogno è camminare per Roma, un giorno, senza essere notato o fermato”. Entrambi non sarebbero ciò che sono senza Roma, che non è solo una città – l’unica al mondo nella quale vivrebbero – ma la protagonista assoluta delle loro storie. Entrambi con il sogno di poterla osservare senza essere visti, di poterla guardare, godere, magari anche visitare; entrambi consapevoli che Roma, questo, non glielo permetterà mai. E poi io a Carlo Verdone voglio bene. Pure a Totti, anche se non sono di Roma. Chi ama così tanto una città ha il dono di farla sentire un po’ tua.
Mi ha emozionato, poi, tornare in aula per i workshop che farò con La Content questo fine settimana e il prossimo. Quest’anno abbiamo scelto una formula ibrida, per lo stesso motivo di cui ho parlato prima: ci sono cose che vengono tremendamente bene online e altre che hanno bisogno di relazioni, postura, ritmo, luogo. E i nostri luoghi sono fatti apposta per sentirsi in una zona di comfort proprio nel momento in cui, di fatto, si sta uscendo.
E tu cosa fai per uscire dalla tua zona di comfort?
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.
Buon fine settimana!