“Nasciamo con le mani piene, per questo da neonati stringiamo i pugni, perché abbiamo i doni più meravigliosi che si possano desiderare: l'innocenza, la curiosità, la voglia di vivere. Poi però veniamo allevati nel timore di Dio, quindi, non possiamo farcene una colpa se abbiamo timore anche di tutto il resto.
Siamo cresciuti col mito del posto fisso, la carriera, il successo, per questo ci sentiamo sempre poveri e inadeguati. Stiamo scappando perché non ci hanno dato le armi giuste per resistere e, quando scopriamo che la nostra squadra del cuore non ci ricambia, che la nostra amica banca si ricorda di noi solo se andiamo in rosso, che il lavoro della nostra vita, la nostra vita la vuole tutta, ci sentiamo sconfitti. Ci sarebbe bastato poco, tipo avere dei sogni veramente nostri, partoriti dalle nostre ambizioni e non dalla sala riunioni di una multinazionale; tipo imparare a richiudere i pugni, come da neonati, per tenere stretta in mano la nostra vita. Adesso saremmo un gruppo di normalissimi esseri umani che se la fanno sotto dalla paura, ma hanno le palle per girare la macchina e tornare indietro”.
È uno dei passaggi più belli del film, Noi e la Giulia (tratto da un romanzo stupendo di Fabio Bartolomei), e credo sia sempre utile iniziare un weekend rivedendolo (se ti piace, anche condividendolo). Ricordandoci per quale motivo lavoriamo e, in generale, per quale motivo siamo al mondo. Per imparare a richiudere i pugni. Guardalo, il video.
Perché i brainstorming classici non funzionano più?
“Le persone pensano che esistano individui creativi e non creativi e, per questo, la creatività oggi viene vagamente incoraggiata come un dono misterioso. Invece tutti lo siamo. Avete mai visto un bambino non creativo?”.
Nei brainstorming classici “vediamo solo quello che conosciamo e, di conseguenza, tendiamo ad associare tutto a ciò che sappiamo già. Quella che consideriamo chiusura mentale è solo il modo più efficiente che il nostro cervello possiede per organizzare tutte le informazioni che ci arrivano. La mente, quindi, è un sistema modellizzante che organizza l’informazione in base alle sequenze di arrivo degli input. [...] Per queste ragioni, il brainstorming così come lo conosciamo non funziona più e non è efficiente, ma viene rimpiazzato da altre tecniche, come il Flow”.
Così parla dell’evoluzione dei brainstorming, in maniera accurata, Federica Brancale nel suo libro, Oltre il Design Thinking.
“La teoria del flusso (Flow) afferma che le persone ottengono di più da un processo di apprendimento o di sviluppo quando si impegnano o si divertono. È indispensabile per il coinvolgimento di un partecipante in un processo di sviluppo che le sue capacità siano adeguatamente messe alla prova. La teoria del flusso afferma che, se un processo di sviluppo non rappresenta una sfida stimolante, l’individuo si annoia e la curva di apprendimento si interrompe. Al contrario, se gli individui devono affrontare una sfida troppo difficile, diventano ansiosi, hanno difficoltà a memorizzare e perdono la comprensione della situazione. [...] Gli esseri umani si sentono bene e si sviluppano meglio, e quindi imparano di più, quando vengono presentati loro compiti che li sfidino in modo ottimale. Né troppo né poco”.
(Documento LEGO® Serious Play® Open Source).
Ti ritrovi? Qual è l’ultima volta che ti sei sentito stimolato ad affrontare una sfida? Io, in questi giorni, sto partecipando a delle call molto importanti in inglese. Inizio a sentirmi decisamente più a mio agio rispetto a qualche mese fa!
La narrativa post Covid
Su La Circle (il social network de La Content che prevede un abbonamento di 7 euro al mese, ma alcuni post li lasciamo “open”), Ettore Zanca ha parlato di quanto la pandemia non venga (ancora) romanzata.
“Lo avrete notato in ogni forma di espressione, libri, cinema, musica. La tematica della pandemia non viene trattata molto frequentemente. I film, i libri, le serie ipotizzano realtà in cui si immagina un mondo che non ne fa cenno” o perché non l’ha vissuta o perché l’ha superata uscendone (quasi) indenne.
Tu che ne pensi? Non siamo ancora pronti per rendere il Covid parte delle storie che raccontiamo?
I giovani non escono più
Mi ha colpito molto un articolo di Elena Stancanelli pubblicato da La Repubblica in settimana.
“Quando, all'inizio della pandemia, i "giovani" uscivano la sera e pervicacemente si assembravano, li trattavamo da irresponsabili. Non avete capito che così facendo spargete il virus come incenso da un turibolo e appestate le città, uccidendo i più deboli, cioè noi?! Li abbiamo fatti sentire in colpa quando sgattaiolavano fuori per accoppiarsi. Mi porti in casa la peste! Non ti basta fare sesso virtuale, scambiarti dei bei messaggi erotici e poi arrangiarti da solo/a? Li abbiamo chiusi a chiave nelle loro stanzette, piazzandoli davanti a uno schermo. Gli abbiamo impedito persino di andare a scuola pur di salvarci la vita. E loro, anziché ucciderci uno a uno, si sono piegati alle circostanze, sono tornati ad abitare nelle loro stanzette di adolescenti, nelle case dei genitori che faticosamente erano riusciti a lasciare. Hanno indossato tute e calzettoni e si sono seduti. E oggi, due anni dopo l'inizio di questo inferno, sono ancora lì. Ormai non abbiamo più neanche bisogno di chiederglielo. Sarà l'avanzata trionfale della variante Omicron, sarà la mestizia di non vedere la fine, ma quei ragazzi e quelle ragazze non escono più, si sono rassegnati. I locali sono vuoti, le strade deserte, di feste non si parla più, la parola discoteca è scomparsa dal vocabolario. Ufficialmente non c'è nessun lockdown, ma nelle nostre città vagano infreddoliti e mogi solo adulti che raggiungono il posto di lavoro, donne e uomini che si riforniscono di cibo e poi corrono di nuovo nelle loro abitazioni.
Ho notato anche io – sia in un piccolo centro come Jesi sia in una città più grande come Bari – che si tende a uscire meno. Sarà il freddo, sarà Omicron, sarà ovviamente la paura di questi ultimi anni. “Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa, quando viene la sera”. Sarà anche la pigrizia, una nuova attitudine, la comodità di poter vedere le serie TV, di fare la spesa online e tante altre invenzioni che ci hanno fatto dimenticare che molti di noi discendono dai Greci e dai Romani e che l’agorà e il foro non si possono sostituire con nulla. Siamo esseri sociali, viviamo per confrontarci con le persone, per incontrare sconosciuti, per innamorarci. Anche solo per un secondo. Per discutere del più e del meno in un bar, per fare tardi la sera e fermarci a parlare sotto casa fino all’alba. Nulla può cambiare tutto questo.
“Chissà se sarà di nuovo possibile una pace sociale tra giovani e adulti o se gli abbiamo inferto una ferita immedicabile, un dolore che ce li ha resi nemici per sempre. I giovani devono vivere, devono correre, devono mangiare tutto quello che c'è. E perché possano farlo, noi dobbiamo consegnargli un mondo che loro possano manipolare, trasformare, ribaltare. Un mondo con le maglie larghe. Dobbiamo smettere di volerli curare. Piuttosto facciamogli spazio e ascoltiamo quello che avranno da dirci”.
È sabato. Esci.
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.
P.S. Con alcuni si è creato un bel filo diretto dopo ogni newsletter. L’idea di scriverci, rispondere, aprire un dialogo che vada oltre i temi che ho scelto per te, mi piace molto. Quindi, ti prego, scrivimi.
P.P.S. Insieme a La Content ho creato una guida in 20 domande per trovare la tua (migliore) storia. Non c’è nulla di più difficile che trovare la narrazione giusta e qualcuno che abbia voglia di ascoltarla. E poi di diffonderla, di sentirla, di farne parte in maniera attiva, quotidiana. La puoi scaricare, compilarla e poi mi dici a cosa ti ha portato.