In fuga da Barbieland, e non solo
Dove si parla di "pausa", "intervallo", "tregua" e di tutte le parole che usiamo pur di non dire "ferie".
“Spero che questa e-mail non ti trovi. Spero che tu sia fuggito, che tu sia libero”.*
Questa è l’ultima puntata di L’ho fatto a Posta prima delle vacanze. O forse no. Che poi, parliamoci chiaro, a chi interessa davvero se una newsletter si ferma o no? Quanta importanza ci diamo? La verità è che anche ad agosto potrebbe venirmi la voglia di aprire il computer e scriverti. O di mandarti una cartolina. È quello che faccio da trent’anni circa ed è piuttosto irrilevante che io lo faccia su un taccuino mentre sono seduto in treno, su Myspace, su Facebook, su Instagram o, da qualche anno a questa parte, con un’email.
Quando smetterò di sentire l’urgenza di comunicare, avrò molto più tempo libero
Nel dibattito “ferie sì, ferie no” non voglio entrare. Come tanti, mi fermo ad agosto e lo trovo romantico. È il tempo sospeso della veranda di cui parla Francesca Coin su Lucy nel pezzo Vogliamo vivere, non solo lavorare! da cui è tratta anche la citazione iniziale* di questa puntata.
La veranda è il luogo del temporeggiamento, nel quale la nostra usuale predisposizione a dare un fine a ogni cosa si dissolve tra il colore del cielo e il profumo dell’erba. La veranda esautora il tempo dell’efficienza e restituisce sovranità a quel pezzo di mondo che, con la propria vita, celebra una temporalità ostinatamente indifferente alla nostra: il tempo delle fioriture o quello della vendemmia. Sarà per questo che la veranda ha un tale potere evocativo. In un’epoca in cui tutto il tempo ha uno scopo, la veranda è il luogo in cui, per qualche istante, è lecito perdere tempo. È lecito non avere alcun obiettivo e tornare a essere pezzi di vita seduti sulla crosta della terra, distratti dalle lucciole e dal rumore dei grilli.
Per me “fermarsi” ha tanti significati. Innanzitutto vuol dire continuare a fare quello che amo, ma con ritmi diversi. Andare a parlare come speaker a un evento, sì, ma farlo la sera, in un piccolo borgo della Puglia, senza slide. E senza fretta. Andrò ancora qualche giorno in ufficio, ma lo dedicherò a incontri dal vivo, telefonate, caffè e chiacchiere fuori brief.
Sono le mie giornate preferite, in cui scelgo su cosa lavorare, quello che posso rimandare e quali persone sentire. Anche le persone che non voglio sentire, magari solo perché così mi va, e basta. Poi sarà tregua, intervallo, sarà pausa dai flussi e dalle urgenze. Sarà pensiero. Sarà anche (soprattutto) assenza. In poche parole:
Joy Of Missing Out
Viva le due settimane centrali di agosto, format visionario di questo sgangherato Paese dai tempi dell’imperatore Augusto. Che Dio le abbia in gloria e le preservi ancora, almeno fino a quando non decideremo di fare come il resto del mondo. Ma finché non accade, nessuno tocchi l’estate. Fabio Fanelli, qualche anno fa, ha scritto un bellissimo pezzo:
In ferie. Non dal lavoro, ma dai suoi flussi. Flussi che sono un modo giusto di far funzionare i processi, i metodi e le scadenze. Un modo giusto di rispondere alle domande, alle sfide, alle gare. Ma che sono sempre, per tutti, compromessi di libertà.
La libertà di non essere nei tempi, la libertà di improvvisare i luoghi, la libertà di non conoscere gli interlocutori.
Pensare al tempo senza rincorrerlo, studiare senza interrogazioni in programma, coltivare e raccogliere momenti, incontri e futuri ricordi senza sirena a richiamar dai campi. Non si tratta di non fare niente, si tratta di fare tutto senza alcuna necessità di farlo.
Menzione d’onore, ancora dopo otto anni, per il post di Osvaldo Danzi, Il buon manager si vede nel momento della pausa:
Non c’è niente di più palloso, inutile e dannoso di un capo o un collega che a pranzo non abbia altri argomenti che i clienti, il budget, il business e le battute sulle colleghe. Niente è più imbarazzante di un interlocutore senza interessi, senza un libro da scambiare, un film di cui discutere, un Paese da suggerire per il prossimo viaggio.
Io ne ho di film da discutere, questa settimana ne ho visti tre, diversissimi tra loro
Barbie
Pinocchio non fa altro che sognare di diventare un bambino vero, è il suo obiettivo dal primo giorno; vuole scappare dal Paese dei balocchi. Barbie no. Barbie vive una vita perfetta a Barbieland, fatta di giornate meravigliosamente tutte identiche: felici, scintillanti, rosa. Fino a quando non le vengono “pensieri di morte”. Che altro non sono che pensieri di vita. Gli dei greci, d’altronde, invidiavano in gran segreto gli uomini perché mortali. Perché loro – uomini e donne – ridevano, piangevano, amavano, si annoiavano persino, morivano. Barbie non piange, non si annoia, non invecchia. Però la vecchiaia la invidia, la definisce “bellezza” in uno dei passaggi migliori del film. A me #BarbieThemovie è piaciuto, perché parla della mia più grande paura: la ripetizione dei giorni, la felicità eterna, il paradiso, se vogliamo. Scappare da Barbieland è l’unica soluzione. Anche perché, nonostante i cavalli, le barche, l’astronave e la macchina rosa, è molto più facile uscire dal ventre di una balena per diventare un uomo che essere una donna ordinaria in questo mondo.
Laggiù qualcuno mi ama
Quanto piango ogni volta che sento la colonna sonora de Il Postino. O Quando di Pino Daniele: mi basta sentire “non guardami adesso amore sono stanco”. Credo di aver rivisto mille volte la scena finale di Pensavo fosse amore… invece era un calesse, quando lui la vede arrivare nel bar e le dice: “Stai bene vestita da sposa”. E di aver pianto, invidiando quella serenità di chi sa che un amore è finito, ma pensa al futuro: “E domani che fai?”. Massimo Troisi mi ha fatto piangere tantissimo, almeno quanto mi ha fatto ridere. “Ricordati che devi morire”, e lui questo lo ha dovuto capire a ventitré anni. Se l’è segnato davvero su un diario. Lo stesso sul quale ha scritto, qualche giorno dopo, “Eppure un sorriso io l’ho regalato”. Massimo Troisi è stato un gigante, bisognerebbe studiarlo a scuola come si studiano Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Dante. Farlo conoscere alle nuove generazioni. Troisi era cinquant’anni avanti: quando in Ricomincio da tre accetta un figlio non suo, discutendo sull’opportunità di chiamarlo Massimiliano – “No, no, no, no pe’ carità [...], Massimiliano viene scostumato”; quando scrive con Anna Pavignano personaggi femminili che bastano a sé stesse; quando parla – meglio, fa parlare – di Cooper: “Sa cosa dice Cooper? La comparsa dell’amore è sovvertitrice di ogni buon ordinamento sociale della nostra vita. Questo ha detto Cooper, ed è quello che è successo a noi”; quando sminuisce il valore della sincerità: “Ma perché siete tutti così sinceri con me? Io mica ve l’ho chiesto?”. Mario Martone racconta due ore di storie e aneddoti, di maschere e smorfie. Ma come Truffaut mette in scena la vita di un unico alter ego che cresce, Antoine Doinel, da Ricomincio da tre a Il Postino c’è un unico grande personaggio: Massimo.
Il maledetto United
Lo avevo già visto, ma complice l’avventura a Liverpool ho voluto rivederlo in inglese. È la storia (vera) di Brian Clough, uno dei più grandi allenatori inglesi, un Mourinho ante litteram che porterà il Nottingham Forest a trionfare in Europa per due stagioni consecutive (’79 e ’80), dopo aver condotto a uno storico titolo il Derby County. In questo film, però, non si raccontano i trionfi di Clough, ma i 44 disgraziatissimi giorni al Leeds United. Chiamato a guidare quella che nel 1974 era la più grande squadra inglese, orfana dell’allenatore Don Revie che doveva risollevare le sorti della nazionale dei Tre Leoni, Clough si metterà immediatamente contro i giocatori, i tifosi, il board e la stampa, vivendo il suo incubo peggiore. Verrà esonerato dopo meno di due mesi, ma da lì inizierà la sua leggenda. Interessantissimo soprattutto per capire che le storie sono anche una questione di prospettiva (il regista sceglie di raccontare la sconfitta di un vincente attraverso una serie di sconfitte e lo fa in un tempo ben connotato, quarantaquattro giorni, e in un luogo preciso: Leeds).
Il Ted Talk – Lo storytelling è una scienza magica
Perché lo storytelling è così potente? E come possiamo usarlo a nostro vantaggio? L’esperto di presentazioni David JP Phillips condivide le principali scoperte neurologiche sullo storytelling e, con l’aiuto delle sue storie, induce in noi il rilascio di quattro neurotrasmettitori di sua scelta:
10 libri da portarti in vacanza
(se hai un Kindle o un Kobo viaggi più leggero, qualcuno l’ho già consigliato durante l’anno, ma repetita iuvant)
Grammatica della fantasia – Gianni Rodari
L’impresa è un romanzo, attraversamenti nella narrativa sul mondo del lavoro – Luca Vignaga
Le grandi dimissioni – Francesca Coin
Oro puro – Fabio Genovesi
Il coraggio chiama – Ryan Holiday
Sarò breve – Francesco Muzzopappa
La bella confusione – Francesco Piccolo
Cose che non si raccontano – Antonella Lattanzi
The Crux – Richard Rumelt
Brand Storytelling nel metaverso – Joseph Sassoon
Storytelling Festival, il corso da comprare questa settimana (poi finisce l’offerta e ottobre è dietro l’angolo)
Preparati, a ottobre arriva a Bari il Festival delle storie. Trovare un purpose e mantenerlo, oggi, è importantissimo per le aziende e per i professionisti. Imparare a raccontarsi, posizionarsi in maniera corretta, farsi guidare da una grande storia è sempre più importante. Lo storytelling è una visione, una grande impresa che guida le azioni quotidiane della comunicazione e non solo.
The Neverending Storytelling Festival è il luogo in cui convergono le storie: dove si parla di futuro, di sostenibilità e di territorio. Dove si attua, perché la comunicazione fine a sé stessa non basta più. Si comunica per agire.
Io sono Cristiano Carriero, storyteller, speaker e autore, e questa è L’ho fatto a Posta. Forse mi fermo ad agosto, forse no. Facciamo che ci scriviamo.
Il mio numero ce l’hai, per qualunque cosa mi trovi al 3386287834.
In autunno lanciamo anche la nostra nuova scuola di scrittura a Bari e a Bologna, in collaborazione con Lucy - Sulla cultura. Insomma, ci aspettano un sacco di cose belle e io sono molto contento. Lo sarò ancora di più se ti farai sentire.
Ti abbraccio.