In presenza
Dove si parla della possibilità di essere le persone meno interessanti a una cena, di pianeti da allineare e di task che possono aspettare.
A cosa servono davvero gli eventi?
Me lo sono chiesto in questi due anni in cui il mondo si è fermato. “Ma sì, tutto sommato si può anche fare formazione online”, abbiamo pensato almeno una volta, e non è nemmeno un pensiero sbagliato. La verità, però, è che gli eventi servono ad altro. Credo, senza mezzi termini, che ci voglia predisposizione a frequentarli. In questi giorni di Web Marketing Festival, ho rimesso in discussione alcune mie convinzioni. E ho provato a riassumerle in cinque punti.
Non partecipiamo agli eventi per dire agli altri quanto siamo bravi noi, ma per confrontarci in maniera sincera, trasparente, aperta. Ieri sera sono andato a cena con persone che non conoscevo: era una cena di networking, si prendeva un bigliettino e ci si sedeva dove capitava. Avevo alcuni inviti, ero allettato – dopo una giornata comunque faticosa – dall’idea di stare con amici e persone conosciute, ma alla fine ho scelto di uscire dalla mia zona di comfort. Sentendo parlare gli altri, mi sono reso conto che ci sono tanti professionisti, magari meno noti, ma straordinariamente appassionati e competenti. E allora mi sono domandato: “È davvero così interessante quello che faccio? È originale? Innovativo (per quanto io sia piuttosto allergico a questa parola)?”. Spesso ci capita di essere circondati da persone che ci stimano o che ci venerano. Anche senza un vero motivo. Ma è quando ci sediamo con degli sconosciuti, a volte più bravi di noi, che ci rimettiamo in discussione.
Chi a un evento segue solo i talk, impara poco. Ecco perché nessuna formazione online potrà mai sostituire la possibilità di incontrarsi, di scambiare due chiacchiere, di ascoltarsi. Per farlo, però, ci vuole tempo. E la strada più facile è dire: “Sono stanco, va bene anche così”. Invece è proprio in quei momenti che i pianeti si allineano. Vedi, avrei potuto rimandare questa newsletter o alcuni post. Ma non l’ho fatto. Perché le priorità si possono sempre mettere in ordine. Una volta ho scritto che c’è una stanchezza che toglie e una che aggiunge – forse sarebbe stato questo, ora che ci penso, il titolo ottimale del punto 2. Ecco, facciamo così: domandatelo sempre, quando sei stanco. Ti ha tolto energia? Era un vampiro*. Diffida dai vampiri: la stanchezza arriva prima o poi, l’importante è che non prosciughi energie, ma le rinnovi.
Avremo sempre qualcosa di urgente da fare. Mi è capitato, in queste giornate. La telefonata del cliente, il problema da risolvere, il team che ti chiede “un parere al volo”, l’email a cui rispondere. A un certo punto, ti accorgi che tutto può aspettare, che lavoriamo anche per goderci giornate come queste e che, se limitiamo il nostro raggio d’azione ai task, non riusciremo mai a fare un salto di qualità. In fondo, qualità non è una parola vuota, ma il motivo per cui ci pagano. Ed è anche il “quanto” ci pagano.
Il Personal Branding è la fatica, a patto che non diventi mai sacrificio
Il personal branding non si fa, si alimenta. L’ho detto mentre moderavo i talk di amici come Davide Bertozzi, Veronica Gentili, Valentina Vellucci. Loro non si sono inventati un personal branding, lo hanno costruito giorno dopo giorno sul campo, lavorando. Le loro soddisfazioni sono figlie dei successi (e delle delusioni) di anni di carriera. Nessuna improvvisazione, solo tanto lavoro. Che, poi, su questo lavoro si possa costruire un’immagine, benissimo. Ieri ho scritto un post su LinkedIn dal titolo Meno sereno di un tempo, ma non per questo stanco, e parlavo proprio di quanto sia importante amare il proprio lavoro per non invecchiare mai. E sono felice di aver visto vecchi amici e grandi professionisti che anziché invecchiare si rinnovano. Ci vuole talento a non stancarsi del proprio mestiere. E io davanti a gente come loro, tra cui Giorgio Taverniti, Matteo Pogliani, Giulia Bezzi, Veronica Gentili, Valentina Vellucci e tanti altri e altre mi tolgo davvero il cappello.
Le newsletter stanno bene. No, non cercare una call to action, perché qui non c’è. Ho scelto di portare al Web Marketing Festival uno speech che parlasse di scrittura, e penso di esserci riuscito. Due soddisfazioni: la sala piena e nessuna fuga quando ho detto: “Domande?”. Avrei voluto e potuto dire molto di più, ma i tempi di questi eventi sono stretti, sebbene con tante persone ci sia stato modo di approfondire successivamente, di chiacchierare sul blocco dello scrittore, di cercare di capire se davvero le newsletter indirizzate al B2B siano poi così diverse. Io credo che al centro di tutto ci sia un’urgenza: scrivere bene. Farlo di pancia, di cuore, di testa, lasciando prevalere una delle tre, a seconda dell’obiettivo. Oppure mescolando tutto e bilanciando bene gli ingredienti, come vorrei aver fatto io con questa newsletter. In fondo, lo diceva anche Orson Welles: «Il montaggio è tutto».
Questi primi mesi estivi mi hanno fatto venire una gran voglia di continuare a organizzare (e frequentare) eventi che siano potenziatori delle nostre capacità, delle nostre competenze, ma soprattutto delle nostre relazioni. La settimana prossima, quando tornerò a casa, cercherò di recuperare qualche intervento online, per il momento mi va benissimo aver vissuto il WMF al meglio delle sue potenzialità.
In presenza, per restituire dignità e peso a questa parola così desueta
Se sei a Rimini, continueremo a chiacchierare oggi – in presenza, appunto – allo stand Hoepli, dove presenterò anche il mio libro Post Social Media Era insieme a Vera Gheno. Se hai ascoltato il mio speech, ti chiedo un feedback sincero: puoi rispondermi qui o con un messaggio al 3386287834. Se invece non sei potuto intervenire, ti anticipo che riprenderemo il discorso sulle newsletter alla Masterclass de La Content a Bari, il 28 e 29 ottobre. Il titolo dell’evento sarà The neverending storytelling e puoi già pre-prenotarti al buio, scrivendomi all’indirizzo cristiano@lacontent.it
Ah, ovviamente se ti prenoti sulla fiducia, senza conoscere il programma e i nomi dei relatori, paghi molto meno. Eccola, la call to action. Che però è nulla, senza fiducia. E quella so di non doverla tradire mai.
Se sei arrivato fino a qui, grazie. Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.
P.S. Per le prime 10 persone che risponderanno a questa newsletter, c’è un libro in omaggio (lo scelgo io, non per forza un mio titolo). Condividila con amici che sono al Web Marketing Festival e invitali a venire a trovarmi allo stand dopo aver commentato. Basta chiedere di Cristiano: se non ci siamo ancora conosciuti dal vivo, è una buona occasione per farlo.
P.P.S. Ieri ho detto che le statistiche dicono di usare titoli compresi tra i 210 e i 250 caratteri. Ma avevo due parole troppo urgenti da usare e mi è scappata così. Si chiama “minzione letteraria” e dovresti usarla anche tu ogni tanto.
*Bonus track, a proposito di vampiri. Tratto dal libro Ruba come un artista di Austin Kleon:
«Nella biografia di Picasso scritta da John Richardson, c’è un aneddoto divertente, ripreso da diversi libri dedicati al management. Pablo Picasso era noto per prosciugare l’energia delle persone che incontrava. Sua nipote Marina dichiarò che strizzava le persone proprio come i tubetti di colore. Molti si adeguarono alla situazione pur di stare vicini a Picasso, ma non lo scultore Constantin Brâncuși.
Era romeno, originario dei Carpazi, e sapeva riconoscere un vampiro quando ne vedeva uno. Non aveva intenzione di permettere a Picasso di rubargli la sua energia, così si rifiutò di avere qualsiasi contatto con lui».
Kleon ha ribattezzato questo metodo “il test del vampiro”: «Se dopo aver passato del tempo con qualcuno ti senti esausto e svuotato, la persona in questione è un vampiro. Ovviamente il test del vampiro può essere applicato a molte cose diverse, non solo alle persone: ai lavori, agli hobby, ai luoghi, ai social network, ai troll. E non c’è cura per i vampiri. Dovessi ritrovarti vicino a uno di loro, fai come Brâncuși e bandiscilo per sempre dalla tua esistenza».