Lavorare (viaggiando) stanca
Sta tornando la "normalità", ma la pandemia ci ha abituato a una disponibilità immediata. Come sopravvivere a questa epoca mescolando con intelligenza hard e soft work.
Questa settimana sono stato in trasferta. Era da tempo che non mi prendevo tre giorni per andare in giro (nello specifico, a Milano) a incontrare clienti, partner, amici ed ex colleghi. Lunedì scorso ho ricevuto un paio – beh, in realtà erano più di un paio – di mail in cui mi chiedevano disponibilità immediate per delle call. Ho declinato. L’ho fatto dicendo la verità: “Sarò tre giorni a Milano e ho parecchie persone da vedere e vorrei dedicare il mio tempo a loro. Possiamo aggiornarci venerdì, quando tornerò in ufficio”. Una cosa un po’ anni ‘90 nell’epoca dello smart working, ma l’ho ritenuto un gesto di rispetto verso chi mi ospitava. Poi qualche call l’ho fatta – lo ammetto – ma sono riuscito a gestire molto bene il tempo: in fondo, basta essere sinceri.
Se devo andare in trasferta per cercare una stanza appartata per fare le stesse cose che faccio nel mio studio, allora sto a casa. E se devo prendere un treno una volta ogni due settimane, ci sta che debba rispondere a un paio di telefonate, ma non mi piace trovarmi in un meeting in cui, proprio nel momento in cui tocca a me parlare, cade la linea a causa di una galleria. La pandemia ha cambiato molto la mia percezione di hard work + soft work. Considero lavoro hard tutto quello che posso fare da solo (anzi, che è meglio fare da solo): scrittura, presentazione di progetti, tempo da dedicare alle mail, call, fogli Excel. È soft, invece, il tempo da dedicare agli incontri, alle contaminazioni, alle pause caffè, alle riunioni in presenza, ai brainstorming. Ne parla un bellissimo pezzo di The Atlantic: “Hard Work Isn’t The Point of the Office”.
Più normalità, meno lucidità
Questo vale per il mio lavoro – mi piacerebbe molto mi raccontassi il tuo punto di vista –, ma credo possa diventare una questione condivisa. Con il lento, e ci auguriamo definitivo, ritorno alla normalità sta succedendo quello che temevo: da un lato ci siamo abituati a una disponibilità pressoché immediata – per forza, eravamo a casa: Puoi fare una call? Sì. Puoi guardare un attimo la mail? Certo. Ti connetti su Teams? Arrivo. Dall’altra parte stiamo tornando a uscire, a fare incontri in presenza, a viaggiare e quindi l’immediatezza e, a volte, anche la lucidità della risposta vengono meno. Credo che la soluzione corretta e futuribile sia nell’alternanza tra soft work e hard work, ancora una volta. Riuscire a restare in equilibrio tra questi due poli, solo apparentemente opposti, è molto difficile, a meno che tu non faccia un lavoro che richiede esclusivamente la parte hard (molto operativo, quindi) o la soft (molto relazionale).
Magari non ti sei nemmeno mai posto il problema e allora te lo chiedo io: tu da che parte stai?
È importantissimo focalizzarsi su questo punto, altrimenti si va in affanno. Si va in apnea perché poi ci tocca guardare le mail la sera, smarcare i task – non la volevo usare questa parola, ma so che è chiara a tutti – in fretta e furia e senza la giusta concentrazione oppure fare meno cose e avere sempre una to-do list lunghissima e probabilmente irrisolvibile. Ti confesso una cosa: la mia casella mail deve dire “0” alla fine di ogni giornata – ok, al massimo 5 o 6. Quando vedo persone che hanno 145.689 mail non lette, mi viene l’ansia per loro. Quando ti abitui ad avere il tuo ritmo, a dare risposte sincere, a organizzare il tempo, è quasi automatico che le cose ti vengano meglio e soprattutto puoi avere più lucidità nel gestire una cosa che, almeno nel mio lavoro – non so nel tuo –, non è eccezione ma regola: l’imprevisto.
La fiducia e il talento
Un secondo tema fondamentale è la fiducia: una delle frasi che ho usato di più in questi ultimi mesi è “Me la vedo io, non preoccuparti”. Ed è una delle frasi che più mi piace sentire da un collaboratore o da una collaboratrice. Non è una cosa che si può dire a cuor leggero, bada bene. Bastano un paio di volte in cui si usa male e ti si ritorce contro. Per questo serve grande autocontrollo, disciplina, fiducia nei propri mezzi. Ma è bellissima. Una volta ho sentito dire dal mio amico Giuseppe Stigliano che avere talento vuol dire “saper fare la miglior cosa possibile nel minor tempo possibile”. Io ho fiducia nelle persone di talento, perché sono quelle che vanno meno in affanno e hanno più probabilità di prendere decisioni corrette anche sotto pressione.
Perché tutto questo c’entra con le trasferte?
Perché davanti a un pc, seduto alla scrivania può sembrare più semplice prendere decisioni giuste: si ha tutto il tempo di valutare, di discernere, di evitare errori. Provaci in treno o in metro – se ti ricordi cosa vuol dire – o mentre stai andando a un appuntamento e sei in ritardo, e Google Maps ti avvisa che hai sbagliato strada. Con il ritorno alla “normalità”, dobbiamo riabituarci a tutto questo e allora sì che puntare sul talento, sulla gestione del tempo e sull’abitudine a lavorare sotto pressione diventa sempre più importante. Non si tratta più di ufficio vs lavoro da casa e nemmeno di Milano vs South Working, riprendendo due pezzi che ho scritto per SenzaFiltro durante la pandemia. È proprio il versus che va eliminato. Il futuro è smart: hard working + soft working.
Cosa ho imparato scrivendo un romanzo
Magari non ti interessa, ma questa settimana ho finito il mio romanzo. O meglio, l’ho consegnato, perché la mia editor, Alessandra Minervini, mi ha detto di lasciare aperto il finale. È stato emozionante inviare quella mail, perché poche cose richiedono tempo e attenzione come un romanzo: una storia che ha trama, sviluppo, personaggi. Un lavoro che richiede ispirazione, ma non solo. Se c’è una cosa che ho imparato in questo anno – il romanzo uscirà a fine dicembre – è che per scrivere un libro (se di successo o meno lo vedremo) ci vogliono tre caratteristiche:
Costanza: se aspetti l’ispirazione, non scriverai mai più di due capitoli. Arriva un punto in cui ti devi forzare. Ti siedi, ti metti lì e dici: “Oggi si scrive”.
Allenamento: io non sono uno scrittore. Magari un giorno lo diventerò, ma oggi non lo sono. Non conosco tutte le regole. Le studio, ma poi vanno applicate. Bisogna esercitarsi, e tanto. Ho avuto la fortuna di organizzare un corso di Scrittura con La Content e di infiltrarmi da studente ai workshop con gente come Giorgio Biferali, Claudia Durastanti, Francesco Trento. Lezione dopo lezione, ho appreso un sacco di cose.
Pazienza: capita di scrivere capitoli interi che poi, a un certo punto, non hanno più senso di esistere. E li cancelli. E li riscrivi. E ci ripensi. E tagli e cuci e pensi di buttare tutto per aria. Ma poi, se insisti, ci arrivi.
La verità è che la scrittura di un romanzo è uno di quei lavori che ti fanno pensare “Ma seriamente, chi me lo fa fare?” e che fanno venire agli altri domande come: “Ma dove trovi il tempo per fare una cosa così lunga che certamente non ti farà diventare ricco?”.
Ecco, la risposta magari te la do sabato prossimo, quando parleremo dello spazio da dedicare ai progetti no profit. Nel frattempo, mi piacerebbe sapere quanto spazio gli dedichi tu. Poi, qualora interessasse anche a te fare un corso di Storytelling e Scrittura, sappi che quest’anno – con La Content – replichiamo. Non ti prometto che riuscirai subito a scrivere un romanzo, ma che migliorerai di molto la tua scrittura sì.
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.
Bonus track
Ho comprato un libro fighissimo, si chiama “L’arte della negoziazione con il metodo del Cremlino”. Insegna come affrontare una trattativa superando lo scoglio più difficile: l’emotività.
Non so quanto ti appassioni il tema, io lo trovo fondamentale. In fondo, aveva ragione Andrej Andreevič Gromyko quando diceva:
Meglio dieci anni di trattative che un solo giorno di guerra.
Tu che ne pensi?
Fa’ buon fine settimana!