Let it be (o segui il flow)
Dove si parla di freelance troppo worker e poco smart, di città belle e città vere, di cosa vuol dire Scouser, di sauditi senza luoghi comuni e di cosa significa storytelling per gli arabi: un cazzo.
Strano come spesso basti un viaggio, pochi grammi di coraggio, un vestito un po’ più corto e poi lo sguardo di uno che era di passaggio. (Il Viaggio, Daniele Silvestri)
Oggi ti scrivo da una piovosa ma affascinante Liverpool.
Non ho intenzione di lamentarmi della pioggia, so che in Italia fa molto caldo e io col passare degli anni ho imparato a non essere meteoropatico. A parte il piccolo dettaglio di essere nato e cresciuto a Bari, dove la pioggia è sentita come una punizione divina e il sole come un merito, ho vissuto in città molto piovose: Santiago de Compostela, dove ho fatto l’Erasmus e dove si contano quasi 280 giorni di pioggia all’anno; Fabriano – se prendi la SS 76 che collega Ancona a questo piccolo e laborioso borgo marchigiano al confine con l’Umbria, attraverserai tre gallerie ricavate all’interno delle montagne. Bene, è molto probabile che imboccherai la prima con il sole, dopo la seconda inizierai a vedere le nuvole che si addensano e, alla fine della terza, ti ritroverai nelle brughiere d’Irlanda con rovesci improvvisi –; la stessa Milano che è diventata molto più mite di un tempo e non so quanto questa possa essere considerata una bella notizia. È che, in fin dei conti, è tutta una questione di prospettive.
Sta piovendo a dirotto. E questo clima è perfetto per New York, e noi ce lo stiamo perdendo. È perfetto per due persone innamorate. (Un giorno di pioggia a New York, Woody Allen)
La bellezza è sopravvalutata
Ci sono città belle e città accoglienti. Liverpool non fa certo parte delle città belle, ma nessuno si offenderà per questo. Eppure, qui bastano poche ore per sentirsi uno Scouser: lo senti quando cammini, quando entri in un pub o in un supermercato. Io odio fare il turista, penso di aver smesso dopo il secondo Interrail. È il motivo per cui non amo le capitali, mentre mi piace creare giorno dopo giorno le mie microabitudini, a costo di inventarne di nuove. Cosa che sto facendo in queste settimane. A Liverpool hanno un accento fortissimo, tendente all’incomprensibile (credo non si capiscano nemmeno tra di loro); ma in pochi ti negheranno una battuta, un dialogo.
“Perché Liverpool, quindi?”
Non lo so, ma credo che la risposta sia piuttosto semplice: questa città ha un’anima. È vera, non è fake. Non esiste una sola ragione al mondo per andare a vedere che aria tira, esclusi i Beatles e il Liverpool FC, ma nessuno viene trattato come un turista. Che tu sia inglese, indiano, spagnolo o italiano, nel momento in cui metti piede qui, sei uno Scouser.
Troppo worker e poco smart
La verità è che sono venuto qui perché negli ultimi tempi sono stato troppo worker e poco smart, quindi mi sentivo in colpa. In colpa verso me stesso, in primis. In colpa perché sono una Partita IVA e sono ligio agli orari di lavoro più di un impiegato che deve timbrare il cartellino (cosa che rispetto tantissimo); in colpa perché, nonostante qualcuno mi definisca un freelance, il mio telefono è sempre accesso e io sempre raggiungibile. In colpa perché da imprenditore non so dire di no alle persone che lavorano con me e da consulente a quelli per i quali lavoro.
Ho lavorato, sì, da posti diversi, ma sempre conosciuti: Bari, Jesi, Milano. Le intuizioni più belle le ho avute quando sono uscito dalle mie zone (la buona notizia è che almeno non è ho solo una) di comfort: per esempio, grazie a Maurizio che mi ha spinto a raggiungerlo per una settimana a Laconi, in Sardegna, a febbraio. In quei pochi giorni ho avuto l’idea di Forme, uno dei corsi più belli e di successo che abbiamo lanciato quest’anno con La Content. Ma non solo: ho avuto modo e tempo – quanto è importante il tempo e quanto spesso dipende dal luogo (in certi posti non lo trovi per definizione) – di conoscere meglio Federico Favot e parlare con lui di sceneggiatura, intelligenza artificiale, sveglie alle 4.44 di mattina, che con me non hanno mai funzionato.
Penso di essere stato stato un ottimo consulente e buon imprenditore in questi anni. Sì, proprio in quest’ordine e con questi voti: ottimo e buono (diventerò ottimo quanto imparerò a delegare ancora di più, a scegliere le persone giuste e a farle crescere più di quanto facciano oggi). Scriverlo è importante per la reputazione, se qualcuno non è d’accordo, può commentare e contraddirmi. Ho lavorato molto, ma non come avrei voluto, su di me. E sono qui per dirlo. Sono anni che dico: “Devo andare a lavorare qualche settimana dall’estero”. Ma poi non lo faccio mai. Sentivo di non poter perdere questa occasione: la credibilità passa anche dal tempo che dedico a me. A migliorarmi, e non si tratta soltanto di imparare ancora meglio l’inglese. Ma di dedicare questo tempo a guardare come lavorano gli altri, cosa fa un’agenzia di content marketing qui in UK, cos’è per il resto del mondo lo storytelling.
Il mio amico Nicolò dice “Flowa”. A me piace dire, in onore di un gruppo che si è conquistato una discreta fama partendo proprio da Liverpool, “Lascia che sia”, Let it be.
Dicono che gli arabi scrivono al contrario (Mohamed ha detto che io scrivo al contrario)
Non avevo mai conosciuto dei Sauditi prima di questa esperienza a Liverpool. Nel residence dove vivo sono tantissimi. Sto passando molto tempo con loro. L’altra sera stavamo bevendo un tè assieme: a un certo punto, li ho visti alzarsi e prendere un tappetino. “Scusa, adesso dobbiamo pregare”, mi hanno detto. Mi sono alzato e loro mi hanno chiesto di restare. Io sarei uscito dalla stanza per rispetto, ma loro hanno insistito. Li ho ringraziati e sono tornato a sedermi girando anche la mia sedia nella direzione di La Mecca. Poi li ho guardati e ho pensato che in una cucina lercia di Liverpool stavamo abbattendo chilometri di distanza, secoli di incomprensioni. Ho bevuto il loro té, poi abbiamo ripreso a parlare.
Sono ragazzi e ragazze preparatissimi. Sanno l’inglese meglio di noi (e loro partono da un alfabeto diverso e sono abituati a scrivere al contrario), hanno fame, voglia di migliorarsi. Se ti incontrano in corridoio, ti danno la mano e ti chiedono come stai. Se li ritrovi al terzo piano cinque minuti dopo, ti ridanno la mano e ti richiedono come stai. Vogliono sapere tutto di noi: chi siamo, che lavoro facciamo e in cosa consiste, cosa mangiamo, come sono le nostre città, cosa pensiamo di loro. Io all’inizio chiedevo poco, e il motivo è molto semplice: pensavo – mi illudevo, con un pizzico di hybris – di essere dalla parte interessante del mondo. Il calcio è sempre un ottimo argomento di conversazione, ma dopo un po’ ti rendi conto che è solo la punta dell’iceberg. In tanti non capiscono che lavoro faccio io.
È vero, non lo capiva nemmeno mia madre
Ma qui c’è molto di più e al decimo indizio ho costruito una prova. Nella loro testa la comunicazione non è un lavoro. Ho provato con branding, storytelling, scrittura, social media, ma nulla. Studiano per lo più medicina, ingegneria, economia, qualcuno legge, ma non non conoscono nessuno che “aiuta le imprese a comunicare attraverso delle storie”. A un certo punto un ragazzo – uno che sta facendo un MBA a Boston – mi ha detto: “Ma perché non vieni da noi a farlo?”. Io gli ho risposto: “Perché no?”. E lui ha preso il telefono e mandato un vocale. Stamattina mi è arrivata un’email da una azienda dell’Arabia Saudita. È incredibile quanto tempo perdiamo a cercare prospect e quanto a volte bastino un viaggio, pochi grammi di coraggio, un vestito un po’ più corto (nel caso specifico un K-way e un ombrello) e poi lo sguardo di uno che era di passaggio.
Grato, nonostante tanto
Tutto questo è bellissimo, e io mi sento molto grato quando sento una lingua nuova, quando vedo posti che non ho mai visitato, quando conosco nuove abitudini. Soprattutto, mi sento grato quando penso che non dipendo da quello che faccio, ma da quello che sono e da quello che voglio diventare. Sono esposto alla vita, anche se non è un periodo facile. Stai alla larga dai finti supereroi, da quelli che ti dicono cosa devi fare, come si vive, da quelli che non hanno un problema. Io ce ne ho. Mi pongo tante domande, a volte mi viene voglia di mollare sopratutto quando mi espongo e poi mi tocca anche pagarne le conseguenze. E no, questa storia non te la posso raccontare. Ma se vuoi sentirla – considera che il favore lo fai a me perché mi permetti di confidarmi –, sai dove scrivermi (qualora non lo sapessi, 3386287834).
Io sono Cristiano Carriero – resto grato – e questa è L’ho fatto a Posta. “C’è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla”, e allora finisco per cercarla anche nelle cose meno belle, ma così vere e sincere che fanno vibrare il cuore. Come Liverpool, appunto.
Ah, non dire mai “nonostante tutto”. Non è mai tutto. “Nonostante tanto” suona meglio
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That’s all, folks!
grazie