Ho smesso di essere figlio dopo aver compiuto diciotto anni. Un modo strano per festeggiare la maggiore età. Si può smettere di esserlo in tanti modi: ribellandosi, scappando, delegittimando i propri genitori, piangendoli. A me non è successo niente di tutto questo.
“Ma come hai fatto?” È una delle domande che mi hanno ripetuto più spesso, in questi 25 anni. Sono tanti 25 anni, un’eternità. Ma la domanda non è come ho fatto ad andare avanti dopo aver visto mio padre impiccato in salotto. La domanda è cosa ho imparato. Ho imparato, per esempio, che le bugie generano altre bugie. E che quel goffo tentativo di mistificare la verità, l’ho pagato sulla mia pelle nei dieci anni successivi. Ma come? Mio padre, una persona così forte, rispettata, importante, che si ammala di depressione e si toglie la vita? Non possiamo dirlo. Non dobbiamo. E io lì, a tenermi dentro tutto. Un giorno una mia amica mi fa: “eppure tu hai uno sguardo strano, un velo di malinconia che non ti togli mai”. E io quella sera le raccontai tutto, e mi sentii meglio. Come mi sento meglio oggi, ancora, a scrivere. Ho imparato che il dolore va espiato.
C’è chi lo fa con i professionisti, chi con gli amici, chi raccontando. Ho imparato che in una casa dove hanno abitato il dolore e la morte, possono tornare la luce e la felicità. Ho imparato che si può essere coraggiosi a 18 anni, anche più che a 40. Ho imparato a godere ogni singolo momento di questa vita (credo sia per questo che mi piace così tanto allargare le braccia nelle foto).
Con la voglia di ridere, scrivere, parlare, fare l’amore. Tutto.
Mio padre era un uomo nobile. E si era inventato che da Voglia di Pane era più buona la focaccia classica, mentre da Boulangerie quella bianca. Forse era una cazzata, ma a lui piaceva farci credere che fosse così. Lo faceva per far girare l’economia (24 dicembre, edizioni Les Flaneur)
Ho imparato a dare il giusto peso ai giorni brutti, che brutti non sono mai finché ci sono la salute e l’amore. Il resto si risolve. Anche il lavoro. Anche il Bari che perde la Serie A al 94’. E poi ho imparato che c’è un destino che si compie. Il mio è quello di sensibilizzare sul suicidio, parlare con chi si è sentito abbandonato o tradito, ma così non è. Mio padre è stato un uomo straordinario, fino all’ultimo giorno. Non c’è forza, non c’è debolezza, soprattutto non c’è colpa. Sono tanti 25 anni, io non so se un giorno sarò padre ma se dovesse succedere vorrei essere bravo come lui. State vicini a chi si sente solo, a chi vi chiede aiuto, a chi non ve lo chiede, a chi si sente perso. E non abbiate paura a chiamare le cose per nome, la depressione è depressione, il suicidio è suicidio. L’amore, però, è amore. E quello resta.
Mio padre, insieme alla vista, stava perdendo anche la capacità di raccontare storie, di inventare mondi: questo aveva fatto subentrare la depressione, ma a casa mia era vietato nominarla. La chiamavamo stanchezza, ipocondria, sfiducia, infelicità, sconforto, ma mai con il suo nome. Mio padre e la sua sfiducia – questo il nome più gettonato – erano anni luce lontani da me. Fino a quella domenica di dicembre quando fu lui a chiamarmi figlio. Per l’esattezza figlio mio.
Quanti sono 25 anni?
Nulla.
Perché nulla è cambiato anche se non ci sei più.
Per qualche anno non ho voluto più sentir parlare di mio padre. Sono andato alla sua commemorazione per mia madre. Lei non era in casa quel giorno, per lei è stato più facile. O forse no. Con il tempo l’ho perdonato, ho imparato a convivere con la realtà e con due parole che hanno sostituito i concetti di brutta malattia, sfiducia, incidente: depressione e suicidio. Succede, è successo. Fa parte della vita, della mia vita.
Io sono Cristiano Carriero, e questa è L’ho fatto a Posta. Forse hai già letto o intercettato questo mio post sui social. Nel caso, scusa per la ridondanza. Per farmi perdonare, ho aggiunto qualche stralcio più intimo preso dal mio romanzo. Ma ci tenevo ad arrivare anche a chi i social non li ha, non li usa o non vuole usarli più.
E se durante queste festività, per un motivo o per un altro, ti senti sola/o non farti problemi a scrivermi. Io ci sono sempre.
Ti auguro giorni di festa, e giorni di felicità.
Io non ho visto mio padre impiccato, nessuno lo ha visto, ma ho dovuto imparare a vederlo perché per anni l’ho immaginato addormentato in un letto. Un giorno, tanti anni dopo, sono andata a ritirare il suo certificato di morte, e vederlo scritto lì “impiccamento” è stato come doverlo visualizzare per forza, e ho dovuto ricominciare tutto da capo.
Grazie per parlarne, io piangeró ogni volta che lo farai 🩵
Chiara
Grazie mille per la tua condivisione! È preziosa ❤️