Non mi sento più tanto Libero
Dove si parla del crollo del server più utilizzato in Italia, della polarizzazione, di un social che non ammette più battute, di (S)Personal Branding. E della mia capitale digitale.
Bari sarà, per il secondo anno consecutivo, capitale digitale.
Non prendere impegni per il 9 e 10 giugno, perché tornerà ABCD, un format nato da un’idea di Nicolò Andreula, che quest’anno vedrà un coinvolgimento ancora maggiore da parte mia e de La Content.
Vogliamo sfatare il mito che a Bari ci stai in vacanza o perché sei nato qui e hai avuto la sfortuna di non potertene andare
Dalle nostre esperienze nasce il desiderio, che si trasforma in missione, di trasmettere a centinaia di persone che è possibile rendere il Sud un motore tecnologico e digitale per il Paese. South working, smart working, le competenze più richieste dal mercato del lavoro tra hard e soft skill, l’utilizzo dei social media come mezzi di informazione, l’Intelligenza Artificiale, le possibilità di finanziamento per startup sono solo alcuni dei temi che sono stati e saranno ancora al centro degli incontri di ABCD.
Una bella occasione per studenti e neolaureati che vogliano intraprendere una carriera nel digitale per ricevere consigli pratici su programmi di formazione e prime esperienze nel mondo del lavoro. Per i professionisti, il modo per costruire relazioni, confrontarsi e avviare progetti o collaborazioni con altri professionisti. Per le imprese, locali e non, il luogo in cui cercare nuovi talenti da acquisire e nuove idee per crescere ed espandere i propri business.
Vogliamo che a Bari, in Puglia, al Sud (dove ci pare) le persone possano venire a vivere, a studiare, a lavorare
Anche se qualunque scusa per venire da noi è ottima. Anche mangiare un piatto di spaghetti all’assassina dalle parti de La Content, per esempio. Credo fortemente che bisogna unire le forze: noi, Nicolò e Disal, Giulio Xhaet, Pegah Moshir Pour, la Regione Puglia e tutte le persone che si attiveranno per far sì che ABCD diventi, negli anni, il motore – ecologico, non inquinante né tantomeno rumoroso – del vero cambiamento. Salva la data, intanto.
Non mi sento più tanto Libero
Nel momento in cui scrivo, non so se Libero.it abbia ripristinato o meno la posta elettronica di qualche milione di utenti, ma ho capito che con certe cose non si può scherzare più. Ammetto che le mie freddure sui social, a volte, siano un po’ ciniche, ma non pensavo che questo post avrebbe fatto incazzare tante persone.
Mi rendo conto che lo scontro “generazionale” sia diventato estremamente polarizzante. Su Facebook ogni post diviene un motivo per schierarsi. Lato mio, non ho perso occasione per passare per quello che “vuole dire la sua su tutto” – quando, in realtà, andando a vedere i post della settimana, ho detto la mia solo su Libero; lato commenti, fa sorridere invece la reazione offesa di chi già si sente frustrato per un servizio che non funziona e in più può sfruttare l’occasione per dare del radical chic a chi ha scelto, nel 2023, di utilizzare un server di posta a pagamento. Abbiamo vissuto giorni migliori, sono piuttosto certo che ne verranno di migliori ancora.
Il paradosso del Personal Branding
Grazie a un articolo postato da Luca Conti su La Circle, ho riflettuto sulle controindicazioni del Personal Branding.
Quando il successo può essere misurato in follower, like e click, il concetto di “marchio personale” sembra un buon investimento, ma Debbie Millman non ci sta. Qui, la venerata designer e consulente di marchi analizza la sfida di trasformare la confusione dell’umanità in un prodotto sicuro per il mercato.
Il culto del Personal Branding non è mai stato così forte. È difficile leggere qualcosa di economia, cultura, spettacolo e politica in questi giorni senza imbattersi in un’altra riflessione su quanto sia fondamentale costruire un marchio personale. Ci sono corsi sul Personal Branding. Ci sono libri sul Personal Branding. Ci sono persino persone che creano marchi personali per altre persone.
Non c’è dubbio che la condizione del branding rifletta la condizione della nostra cultura. Ma l’attuale preoccupazione delle persone per lo sviluppo del proprio marchio personale è irta di contraddizioni intrinseche e di connotazioni piuttosto sgradevoli. L’idea di un “marchio personale” non è nuova o unica. È stata introdotta per la prima volta dallo scrittore e venditore Napoleon Hill, nel suo libro del 1937 Pensa e arricchisci. Originariamente promosso come testo di auto-aiuto, proponeva che la personalità di una persona potesse potenzialmente sostituire le capacità e il talento per creare ricchezza.
A oggi, il libro ha venduto oltre 100 milioni di copie e, nel corso degli anni, l’idea di un marchio personale si è evoluta fino a diventare più mainstream, in quanto le celebrità hanno iniziato ad appoggiare i marchi in pubblicità cartacee e televisive.
La crescita vertiginosa dei social media negli ultimi due decenni ha alimentato quella che, oggi, è la gestione professionale delle identità personali
Mentre Martha Stewart e Tony Robbins vendevano i loro valori insieme ai prodotti, all’inizio del XXI secolo, celebrità come Paris Hilton e Kim Kardashian hanno utilizzato i nuovi strumenti dei social media per diventare famose più per ciò che proiettavano che per qualsiasi forma di risultato effettivo. Anche l’ex presidente Donald Trump ha usato l’idea di un marchio personale per vincere le elezioni del 2016.
Ma che cosa sono esattamente i marchi? I marchi sono, per intenzione e progettazione, “significati”. Le persone amano i marchi. Tutto ciò che consumiamo oggi, anche i beni di prima necessità come l’acqua e il sale sono marchi. Le esperienze sono marchi. Gli edifici sono marchi. I musical di Broadway sono marchi. Mettiamo loghi sulle uova e sulle tazze del water e, sotto forma di tatuaggi, li usiamo perfino per marcare i nostri corpi. Quando una persona aspira a essere un marchio, però, rinuncia a tutto ciò che di veramente importante – e mai parola fu più consona – c’è nell’essere umano. La costruzione di un marchio richiede consenso. Quando ci posizioniamo come un marchio, siamo costretti a proiettare un’immagine di ciò che crediamo la maggior parte delle persone approverà, ammirerà e comprerà. Il momento in cui adattiamo la nostra creatività all’opinione popolare è il momento esatto in cui perdiamo la nostra libertà e autonomia.
La riflessione resta aperta: puoi leggere l’intero articolo in inglese e farti una tua idea o rispondere alla domanda di Luca:
quanto tempo spendi in media, al giorno, nel tenere un contatto con il tuo pubblico e nel concentrarti sulle metriche dei tuoi profili? Quanto ne impieghi per far crescere la tua reputazione con attività di contenuto non semplicemente fini alla promozione?
Questo tempo è bilanciato?
Ti ricordo che molte di queste riflessioni le trovi su La Circle, l’ingresso è gratuito, la consumazione (partecipazione) obbligatoria. Basta un drink ogni tanto!
Io sono Cristiano Carriero, e questa è L’ho fatto a Posta. Ti auguro un buon fine settimana!
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Vado a preparare il mio TedX sulla Post Social Media Era (ci vediamo a Rovigo il 18 febbraio) e a fare una torta salata per domani sera – fa anche rima.