Qualcosa (di grande) è cambiato
Dove si parla di photo dump, di casualità e ricercatezza, della regola dei terzi, di come la Gen Z stia ribaltando le regole dello storytelling. In meglio. E finalmente.
Io sono una Millennial e invidio da morire i photo “dump”: quelli in cui ci butti dentro tutto quello che hai fatto durante una serata, una gita, l’intero mese. E sai perché? Perché io non li so fare. (Leandra Borsci)
Sono innamorato della nuova generazione, credo di averlo già scritto. In un’epoca in cui non si fa altro che rimpiangere i bei tempi che furono – “Eh, ma vuoi mettere le nostre canzoni, gli attori di una volta, il telegrafo…” –, penso che sia arrivato il momento di riconoscere a questi ragazzi e ragazze dei grandi meriti. Primo fra tutti quello di aver ribaltato (ed era ora) le regole della narrazione. Regole che sembravano, ormai, incontrovertibili. La fotografia perfetta, il racconto lineare, la costruzione di uno storytelling pianificato a tavolino con tanto di eroe, antagonista, caduta, oggetto magico e chi più ne ha, più ne metta.
Miriana ha ventiquattro anni e comunica così. Ha raccontato con un carousel la sua esperienza a Yell – a proposito, ringrazio gli amici di Likeabee per avermi voluto con loro –, parlando di attese, di nuvole grigie, di tempo, di vampiri e di gratitudine. Ha usato ombre, video di speaker che ballano sotto la pioggia, foto non a fuoco, immagini di sedie pieghevoli brutte, divertissement.
Miriana non è ovviamente la sola che utilizza i social in questa maniera. Si tratta di una tendenza da Post Social media Era: per troppo tempo Instagram (come tante altre piattaforme) è stato un luogo di fiction. Gli influencer ci hanno propinato una vita perfetta, fatta di scatti perfettamente a fuoco, immagini in griglia, filtri, post produzioni. Il risultato è che ci siamo annoiati – non quella noia positiva però, quella che ti rende passivo – e che certi messaggi sono diventati poco credibili; e la pandemia non ha fatto altro che accelerare un processo già in essere: il ritorno alla spontaneità.
Una serie di foto sfuocate non sono un dump
Ma anche la spontaneità richiede una tecnica, un’arte, una fantasia, un racconto. E fa nulla se questo racconto segue delle regole diverse da quelle che ci hanno – io per primo, sia messo agli atti – consigliato. Prova a fare delle foto sfuocate, pubblicale senza pensare quale messaggio vuoi davvero far passare e vedrai il risultato: una merda.
A proposito, la pagina @_foto_di_merda_alla_luna è quello di cui sentivamo fortemente il bisogno.
La verità è che comunicare la spontaneità è un esercizio molto difficile, oltre che rischioso. Ma se la mia generazione si è fatta mille problemi in passato – non dimentichiamo che siamo cresciuti con genitori che dicevano di andare a votare non solo per dovere civico, ma perché altrimenti non avremmo trovato lavoro, oltre a invitarci a non parlare di politica durante i colloqui e, in generale, con persone più grandi di noi –, la GenZ, fortunatamente, questi problemi non ce li ha. È più libera dai vincoli e, anche se ha vissuto momenti difficilissimi, costretta a frequentare scuola o università privandosi delle relazioni sociali per due anni, ha rivoluzionato il modo di intendere la comunicazione.
I ragazzi della Gen Z sono quelli a cui la telefonata non piace perché è invasiva e perché sentono di dover intrattenere l’interlocutore. E non sempre ne hanno voglia. Questa cosa può piacere o no – a me, per esempio, non fa impazzire, credo che spesso una telefonata sia decisiva più di mille messaggi –, ma è un dato. Un vocale dà la possibilità di organizzare una “controffensiva”, nella telefonata vince quasi sempre chi si è preparato meglio. Ovvero, chi chiama. Potremmo parlare ore di questa insofferenza, ma ho scoperto anche che noi usiamo la messaggistica (e WhatsApp) molto più di loro. Dal mio osservatorio privilegiato – sarebbe interessante sentire anche Zio, ti consiglio la sua newsletter –, so che molti giovani non hanno nemmeno le notifiche di WhatsApp attive. Entrano ogni tanto, rispondono quando possono o quando sentono la necessità di farlo, tralasciano il resto.
Personalmente, invece, sono cresciuto con un forte senso di colpa: rispondi a tutti, anche quando non ti va. Inutile che ti dica che percentuale importante di vita ho impiegato a cercare di essere carino con chiunque.
Quando sono a cena e sono con persone che mi annoiano, ho imparato a fare una cosa: dico che vado in bagno e me ne torno a casa. Funziona. (Fabio Genovesi)
E perché, a fronte di questo cambiamento epocale, molte aziende continuano a comunicare come si faceva nel 2010?
La risposta, anzi le risposte sono abbastanza semplici.
In primis tante imprese (vale anche per i politici, i personal branding ecc.) non studiano attentamente i cambiamenti. La tentazione di derubricarli a mode o a fenomeni del momento è sempre molto forte.
Il paternalismo ci porta a considerare le forme di espressione della nuova generazione come qualcosa che “non durerà a lungo”. Esattamente come non è durato tutto quello che abbiamo fatto noi o che hanno fatto i nostri padri e le nostre madri. Ma c’è un’evoluzione, e in tanti se la stanno perdendo.
Non esistono molti spazi sperimentali. In azienda i giovani ci sono, ma vengono subito risucchiati nel vortice del “qui si fa così”, dei progetti strutturati guidati da manager di un’altra generazione, che hanno poca voglia di mettere in discussione le loro idee.
Il cambiamento spaventa. E così in tanti stanno cercando di difendere inutilmente una cifra stilistica comunicativa che non è più attuale. Cambiare significa andare alla ricerca di nuove competenze e, forse, fare anche molta job rotation: una faticaccia, insomma. E se poi ci tocca dare davvero fiducia ai giovani?
La transizione può essere molto lunga: così come l’intelligenza artificiale, alla lunga, premierà chi le suggerirà le storie (le idee, i brief, i prompt) più brillanti, i social si sposteranno sempre di più verso l’intrattenimento in luogo dell’informazione. E se persino l’informazione tradizionale va in quella direzione, l’intervista al CEO dell’azienda diventa una roba preistorica, che non interessa a nessuno.
Leandra Borsci, copy strategist a La Content, me lo dice spesso:
“Cosa ti aspetti da un modo di comunicare che va avanti a pubblicità progresso contro la droga, che quasi quasi ti fanno pentire di non essere allucinatə mentre le guardi? (D’altronde, come poteva essere diversa, dopo la gestione del decreto anti-rave?).
Se ci fai caso, adesso moltissimi brand mettono cani che abbaiano nelle loro pubblicità in TV. È vero, perché la famiglia è cambiata. Ma è una contraddizione in termini: chiunque conviva davvero con i cani sa che mezzo abbaio fa partire la cagnara. La verità è che nei brief ci chiedono ancora di scimmiottare la realtà, anziché di replicarla. E noi tante volte non siamo in grado di costruire la dimensione più terra-terra del quotidiano, di “abbassarci”, al contrario stiamo elevando il grado di adesione tra ciò che è la realtà rispetto a come la facciamo passare con la comunicazione.
Non tutti, ma in tanti.
Quando dico che scrivo, mia zia mi chiede perché non lo faccia tutti i giorni su una panchina del parco, con il riflesso del laghetto sugli occhi ‘come fanno nei film’. A parte i danni posturali e tolto il romanticismo dell’immagine, lascerei agli sceneggiati di una volta ciò che è degli sceneggiati di una volta.
Eppure, la mia domanda è da sempre: ‘Da dove nasce questo grado di approssimazione rispetto alla realtà?’
È un po’ come quelle farciture fake delle brioche: fuori da vetrina, nell’essenza una gran delusione. E la cosa che mi fa più ridere è che l’approssimazione e l’inconsistenza delle idee e dell’esistenza sono proprio due delle cose che vengono recriminate sistematicamente ai più giovani. Io sono una Millennial e invidio da morire i photo dump: quelli in cui ci butti dentro tutto quello che hai fatto durante una serata, una gita, l’intero mese. E sai perché? Perché io non li so fare. Perché sono terribilmente veri: l’insegna di un locale, il dettaglio di un vestito, la copertina di un libro che viaggia su un treno, il close-up sulla faccia del tuo migliore amico.
Dietro la casualità dell’immagine, io ci vedo la ricercatezza del saperla catturare nel momento giusto, nel posto giusto.
Oltre il bello, il brutto
Il sovraesposto, la regola dei terzi. Fluido. Che è un altro di quei concetti che in maniera nevrotica i brand – e chi ci sta dietro – ha prima guardato con scetticismo per poi volersene appropriare più o meno eticamente. Con le nuove forme di comunicazione, vedrai, andrà allo stesso modo, come sta accadendo con l’inclusione. Com’è già successo con WhatsApp, con i social.
E tra un paio di anni, ti dirò: ‘Vedi, Cristiano, qui un tempo era tutto o tempora, o mores!’”.
Personalmente, sto rimettendo in discussione molte cose
Il mio modo di comunicare, in primis. Ed è faticosissimo. Perché a tutti piace avere delle regole e uno stile, ed è comodo dire: “Al mio target piace questo”. Il problema – o la fortuna – è che il mio target cambia, evolve, cresce (ti sembrerà incredibile, ma iniziano a esserci persone della Gen Z anche in ruoli apicali in azienda) e io devo evolvere con loro. Per questo mi interesso alla loro musica, ai loro trend, alla dieta mediatica e alle nuove forme di linguaggio. E odio lo snobismo di chi crede di essere arrivato. Dove, esattamente? Il post di Miriana mi ha emozionato come mi ha emozionato l’entusiasmo di Maria Carla (suo il post Instagram che trovi qui sopra), di Nicolas, di Roberta, di Francesca e di tutto Likeabee.
Io vedo le cose perché cambino i miei gusti. Ascolto la musica per sentire musica che non conosco, non quella che conosco già. Voglio andare a scoprire delle cose nuove. Se tu mi tieni all’interno di un algoritmo che decide sempre che io devo essere quello perché ti gli hai detto “questo mi piace” e stai lì, che evoluzione hai di te stesso? (Pierfrancesco Favino)
La mia idea è che cambieranno i social e il modo di intendere la comunicazione, ma ci sarà sempre più bisogno di chi comunica bene, di chi conosce le regole e sa sovvertirle, di chi evolve e di chi si approccia al futuro studiando anche il passato e, soprattutto, di chi considera la comunicazione una materia seria.
Noi non salviamo vite
Non è vero.
Comunicando bene possiamo migliorare la vita di tante aziende, e quindi di tante persone e di molte comunità. Generare valore, profitto e prosperità. E su questo non cederò di un millimetro. Magari amare il proprio lavoro è passato di moda (altro dibattito al quale partecipo con grande interesse); ma amare la propria impresa, piccola o grande che sia, no.
Storytelling Festival e corsi di scrittura belli
“Se non lo sai scrivere, non lo sai spiegare”. Ecco perché da dieci anni a questa parte cerco sempre di trovare il tempo per condividere i miei progetti. È un modo per dargli vita attraverso le parole giuste. E per mettermi un po’ di sana “social pressure”: quando lo annunci, devi farlo. Stiamo lavorando su tanti nuovi format: La Masterclass lascerà il posto a Neverending Storytelling Festival, a Bari: un’occasione imperdibile per parlare di umanesimo e innovazione, di territorio e sostenibilità. Di storie che generano visioni, idee, cultura e business. Ho appena lanciato “ImprendAutori”, un corso di Personal Branding in cui spiegherò agli imprenditori perché devono allenarsi a diventare autori, ognuno con il suo stile, trovando la propria grande studia. Torna il corso di digital storytelling per il business dopo la fortunatissima prima edizione e arriva una grande novità: la partnership con una delle più interessanti media company della scrittura (per spoiler, vai al pps*) – e che ha una crescita esponenziale su Instagram – con l’obiettivo di far diventare Bari uno dei più importanti poli della narrativa italiana.
Io sono Cristiano Carriero, faccio parte della Generazione X (ma non si direbbe), sono barese, ma sono più puntuale di uno svizzero perché io ai luoghi comuni non credo, sono quello del mare a sinistra e questa è L’ho fatto a Posta, la mia nicchia di lentezza in un mondo che va sempre più veloce. Se questa newsletter ti è piaciuta, puoi offrirmi un caffè. Se invece non ti è piaciuta, puoi offrirmelo lo stesso e scrivermi perché e come la vedi tu. Il mondo ha bisogno di gentilezza, e io anche.
Sono in partenza per Liverpool dove mi fermerò per un paio di settimane. Il motivo te lo racconterò nelle prossime puntate, così faccio come quelli bravi che lasciano il teaser: prometto di fare solo photo dump. Ti abbraccio e, per qualunque cosa, sai dove trovarmi.
Ti abbraccio forte, perché piano non so farlo. Chiedete a Maria Carla e a Miriana, se avete dubbi.
ps: grazie a Chiara Sorrento, che ogni settimana mi aiuta con l’editing di questa newsletter. Se hai bisogno di una editor (fa sempre comodo), ti metto in contatto con lei. Eventuali typo, dovuti ad aggiunte successive, sono miei!
*pps: se sei arrivato fino qui te lo meriti. Oggi in aula, per Forme, c’è Nicola Lagioia (sì, lui) dalle 18 alle 20. Vorrei dedicare tre posti alle lettrici e ai lettori di L’ho fatto a Posta. I primi tre che commentano questa newsletter e mi mandano una mail accedono all’aula! (Se non sarai tra i primi tre, c’è comunque un pensiero per te).
Scrivimi!
ciao Cris, tre cose veloci:
- hai fatto bene a sottolineare che dopo che Chiara approva, tu comunque infili typo … ne ho contati 3 ;-)
- la newsletter di zio personalmente l'ho odiata, ha un modo di scrivere e un contesto che mi sono alieni, ostici. Ma mentre mi ero iscritto per capire il contesto, trovo il flusso narrativo da lui costruito del tutto alieno a quello che sono, so e che mi piace. Mi sono disiscritto anche se in moltissimi me la raccomandate
— la cosa che odio del nuovo modo di raccontare è che non c'è permanenza, non c'è storia, non c'è il guardarsi ed il successivo giudicarsi ed evolversi. Anche noi facevamo il photodump … ricordi i gruppi Flickr post BarCamp e simili? Stavamo tutti assieme raccontando qualcosa di comune. Adesso per N ragioni è andato tutto perso. Scriviamo belle cose, diamo belle suggestioni ma durano il tempo di un battito di ciglia. Se voglio tornarci a ragionare dopo non posso farlo se non prendo screenshot. Il mio iphone è pregno di queste immagini che fermano la suggestione per quando avrò modo di elaborarla e farla mia
Per il resto una lettera tra le più belle di queste su Substack. Grazie!
Reduce da un dibattito con i miei nonni su come la nuova generazione sia “malata”, questa newsletter è stata lenitiva oltre incredibilmente motivante. Kudos ✨