Sei mesi e 1 milione di views dopo
Perché le vanity metrics non contano, ma la costanza e la continuità sì. Qui è dove si parla di scrittura, di geopolitica, di influencer improvvisati, di coach visionari e di coworking virtuali.
Sono passati esattamente sei mesi da quando ho iniziato a scrivere L’ho fatto a Posta. La prima pacca sulle spalle me la do da solo: non ho saltato nemmeno un sabato, a parte nel periodo natalizio, quando ho annunciato che mi sarei preso una pausa. È stato molto importante per me, e dovrebbe esserlo anche per te. La morale è una: i contenuti hanno bisogno di continuità e costanza. Ho visto tante persone iniziare a scrivere una newsletter e poi mollare dopo meno di un mese. Scrivere è faticoso, cercare argomenti lo è ancora di più, e allora ci sono due scelte: accettare che gli argomenti non ti vengono a trovare da soli o stabilire un metodo per cercarli, analizzarli, condividerli. Ho avuto molte soddisfazioni da questa newsletter, la più grande è stata stabilire un dialogo più intimo con tante persone che adesso mi sembra di conoscere meglio. Non ho monetizzato, se vuoi saperlo. Magari indirettamente, visto che mi hanno invitato a tenere un corso proprio sulle newsletter, che si chiama Giusto Tono, all’interno del quale ci sono professioniste come Annamaria Testa.
La settimana scorsa ti avevo scritto che avevo dedicato troppe ore al lavoro. Non ho fatto molto meglio in questa, ma ho delle ottime scuse. Sia lunedì sia giovedì ho partecipato al Corso di narrazione e scrittura sportiva, portandomi a casa un quaderno pieno di appunti. Alcuni li voglio condividere con te perché credo siano lezioni universali.
La prima è una pillola di management e arriva da Mauro Berruto, coach, manager e autore. Quando ci ha raccontato della sua esperienza come CT di pallavolo della Finlandia, mi ha incantato con un concetto:
Costruire una squadra è costruire un mondo narrativo.
È annunciare che stai per raccontare una storia.
Per coinvolgere le persone in un progetto, bisogna ingaggiarle in una storia. Vale per lo sport, per l’azienda, per i progetti con i clienti. Eppure c’è ancora chi non coglie l’importanza dell’abilità nel raccontare storie, nel costruire universi narrativi, nel far sì che questi siano accettati e condivisi. Mauro Berruto è partito dall’esempio di Vittorio Pozzo – CT della Nazionale di calcio del 1934 e del 1938 – che, dopo aver alzato la seconda Coppa del Mondo al cielo, andò in camera a scrivere il pezzo per il giornale.
Quanto contano le parole, quanto potere hanno. Quanto restano nella nostra testa.
La seconda lezione arriva da Fulvio Paglialunga, giornalista Rai, che giovedì ci ha spiegato come una buona e sana narrazione sportiva possa aiutarci a capire meglio la storia, la geografia, la geopolitica.
Questa è la Donbass Arena, lo stadio dello Shakhtar Donetsk, una delle squadre più importanti dell’Ucraina, insieme alla Dinamo Kiev. La cosa interessante è che questa foto non è recente: è del 2014. È da allora che lo Shakhtar gioca in altre città dell’Ucraina: Leopoli, Kharkiv, la stessa Kiev. Perché il suo stadio è stato bombardato e, da allora, la città è contesa tra i ribelli filorussi e le truppe governative ucraine. Particolare interessante: in questi anni, lo Shakhtar Donetsk ha incontrato diverse volte squadre italiane nelle Coppe Europee – l’Inter tre volte nelle ultime tre stagioni. In molti si sono accorti che le partite casalinghe non sono state giocate a Donetsk, quanti hanno approfittato dell’occasione per chiedersi cosa stesse davvero accadendo nel Donbass? Pochi. Lo stiamo scoprendo adesso.
L’influencer improvvisato
Della visita di Salvini in Polonia ho parlato abbastanza in questo post su LinkedIn. Pensavo potesse generare discussioni e commenti. Non immaginavo, sinceramente, potesse superare il milione di visualizzazioni. Lavorando nel settore del branding, della reputazione e – soprattutto – dell’influencer marketing, la mia curiosità era una: capire se i brand sfoggiati come medaglie sul petto di Salvini fossero consapevoli di essere lì, e se fossero consenzienti. Sappiamo bene, dopo aver ricostruito, che il giubbotto è stato realizzato da una Onlus, Cancro Primo Aiuto, – qui puoi donare, lo meritano – e che i marchi sono serviti a sponsorizzare l’associazione e non la visita dell’onorevole. Ma le domande restano. Perché indossarlo per una visita in un teatro di guerra? I brand, quei brand, si sono dissociati? Puoi scrollare tra i 1500 commenti per cogliere le diversità di vedute, credo che anche questo video dell’amico Matteo Flora sia molto interessante.
Non tutto lo smart working viene per nuocere
Su La Circle, ormai da oltre due mesi, ogni settimana sono a disposizione di tutti gli iscritti due sessioni di coworking virtuale. In pratica, ciascun membro della community può collegarsi con Zoom in videoconferenza a una sessione in cui l’obiettivo non è interagire con gli altri membri, ma concentrarsi sul proprio lavoro.
Lo scopo è aumentare l’effetto responsabilizzazione (accountability, in inglese) generato dal prendersi un impegno con un soggetto terzo. La sessione ha inizio con uno scambio di saluti e con la dichiarazione, da parte di ciascun partecipante, di quale sarà l’oggetto del proprio lavoro all’interno del coworking. Sul piano psicologico questa dichiarazione è, a tutti gli effetti, un impegno che si prende verso gli altri e per questo spinge a essere più determinati nel raggiungere l’obiettivo prefissato.
Alla sessione si partecipa con la camera attiva e con il microfono spento (a esclusione della parte iniziale e finale), così da sentirsi parte di un gruppo che lavora, come in un coworking reale, senza il rumore dato dall’ambiente di ognuno dei partecipanti.
I vantaggi di lavorare in un coworking virtuale
Effetto accountability. Il motivo principale per cui il coworking virtuale funziona, come testimoniato da decine di partecipanti in decine di sessioni, è l’aumento dell’effetto responsabilizzazione. Se prendo un impegno con me stesso per qualcosa su cui ho difficoltà a motivarmi, avrò un certo risultato, frutto della mia forza di volontà. Se prendo un impegno con un soggetto terzo, per la stessa attività, avrò un risultato superiore. Il coworking virtuale sfrutta questo aspetto della nostra psicologia.
Aumento della produttività. Avere un appuntamento fissato e un impegno verso terzi attiva meccanismi virtuosi a catena. Molti dei partecipanti si sentono in dovere, seppur non sia in alcun modo obbligatorio, di disattivare le notifiche dello smartphone ed entrare in modalità Non disturbare per tutta la durata della sessione o di non rispondere alle telefonate in questo arco di tempo. A seconda dell’obiettivo prefissato, pratiche che favoriscono la concentrazione si riflettono quasi automaticamente in un aumento della produttività a valle. Questo meccanismo funziona così bene che chi partecipa a una sessione, notandone gli effetti positivi, prende parte con una certa regolarità a tutte le seguenti o decide di partecipare proprio quando deve lavorare su qualcosa che lo sfida più del solito nell’essere concentrato e produttivo.
Sviluppo del senso di appartenenza a un gruppo. La pandemia e il lockdown ci hanno fatto capire – se non ce ne fossimo resi conto già prima – che non possiamo trascurare il nostro essere animali sociali, anche se lavoriamo da casa o se siamo in smart working. Il contatto umano è qualcosa che molti lavoratori della conoscenza sentono mancare quando lavorano da casa e da soli. Soprattutto se questa modalità di lavoro si ripete per molto tempo, giorno dopo giorno. Partecipare a un coworking virtuale ci fa sentire membri di un gruppo perché vediamo le facce, perché sentiamo su cosa lavorano. Ciò che succede è che, in testa e in coda, quando c’è l’occasione, si aggiunge una breve conversazione, interagendo sulle curiosità spontanee che nascono dalle dichiarazioni iniziali e finali. Molti degli stessi nomi si incrociano poi all’interno della community e la conoscenza reciproca assume un altro sapore, diventando via via più profonda. I nostri rapporti sociali si rafforzano e cresce il nostro senso di appartenenza. Proprio questo è alla base di un meccanismo psicologico/sociale/evolutivo che ci fa sentire bene, ci fa sentire accettati, ci fa sentire parte costruttiva e positiva di qualcosa di più grande di noi, ovvero del gruppo di cui facciamo parte e al quale contribuiamo.
Tu hai mai provato questa attività?
È tutto, mi ero ripromesso di parlarti anche della lezione che ho fatto l’altro giorno alla scuola media Italo Svevo di Trieste, un’esperienza che mi ha arricchito molto grazie alla partecipazione degli studenti che mi hanno chiesto più volte come si supera il blocco dello scrittore. Una domanda che adoro e alla quale ti risponderò nella prossima puntata!
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta. Fa’ buon fine settimana e, se sei a Rimini domenica, fammi un fischio. In mattinata sarò al Sigep a trovare alcuni clienti.
Ah, la settimana prossima lanceremo La Content Fest, l’evento di digital marketing più grande del Sud Italia. Abbiamo aspettato un po’ perché abbiamo riflettuto sull’opportunità di lanciare un evento in tempi di guerra. Ma se da un lato temiamo che saranno lunghi (e scuri), dall’altro pensiamo che non sia giusto fermare tutto. Magari dammi un tuo parere anche su questo, ci tengo.
Spero di abbracciarti presto.