Siamo tutti boomer di qualcuno
Come sta Facebook e come saranno i social nella Post Social Media Era.
Nell’estate del 2008 sono stato in Montenegro e ho conosciuto un gruppo di ragazzi e ragazze serbi. Sono stati loro, per la prima volta, a parlarmi di Facebook. In realtà alcuni miei amici italiani avevano iniziato a utilizzarlo principalmente per giocare a FarmVille, ma la leva con me non aveva funzionato. Furono quei ragazzi della ex Jugoslavia – ricordate la filastrocca: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito” – a spingermi a iscrivermi a quel social network:
Quando torni in Italia puoi caricare le tue foto lì, così noi le vediamo e le possiamo commentare!
Loro erano tutti già iscritti: a causa della guerra avevano perso le tracce di alcuni amici. Chi era andato dalla Bosnia a Belgrado, chi dalla Croazia si era spostato in Montenegro. Con Facebook si erano ritrovati tutti.
E così mi iscrissi e come foto profilo ne scelsi una scattata a Becici. C’ero io che facevo sci d’acqua. Così tutti crederanno che sono un gran figo e faccio sport acquatici – pensai tra me e me mentre la caricavo. Andai subito alla ricerca dei miei amici delle elementari e delle medie, quelli che avevo perso di vista da troppo tempo, e aggiunsi le persone che avevo conosciuto nelle mie esperienze all’estero. All’inizio parlavo inglese, perché pensavo di dover comunicare con il mondo e non avevo capito quale fosse il mio ruolo lì. Puntualmente, quando “Accadde oggi” mi ricorda cosa scrivevo e le foto che postavo, mi vergogno tremendamente. Sono piuttosto certo che, quando tra vent’anni vedrò quello che pubblicavo nel 2021, mi vergognerò ancora.
Siamo tutti boomer di qualcuno, in fondo. In primis di noi stessi. Mi ha colpito molto un articolo pubblicato da The Atlantic una settimana fa, il cui titolo è proprio: What Happened When Facebook Became Boomerbook. Ti evito lo sbattimento di doverlo tradurre dall’inglese – se hai familiarità con la lingua è una lettura che ti consiglio – e vado subito al punto:
A volte è difficile ricordare che Facebook ha solo 17 anni: se fosse una persona, potrebbe guidare, ma non bere. Se Facebook fosse una persona, sarebbe anche favolosamente ricco, incredibilmente di successo ed estenuantemente polemico. E probabilmente non userebbe Facebook.
Io non rientro nella lista dei pentiti di Facebook, tutt’altro. Trovo che, a oggi, sia ancora il social network migliore per condividere notizie – anche false, purtroppo –, dialogare – fino a litigare, ahimé –, creare contenuti testuali di diversa natura e condividere ricordi. Ho iniziato a usare il mio Diario in quell’estate del 2008, e fondamentalmente non ho mai smesso. Nessun social mi conosce meglio né mi permette di spaziare col minimo sforzo – io non so ballare, recitare, saltare – da un argomento all’altro e questo per me non è secondario. Ho provato e, di fatto, ho attivi tutti i social: Twitter, LinkedIn, Instagram, Pinterest e persino TikTok. Li trovo tutti esperimenti interessantissimi, ma limitati. Su Twitter le interazioni sono molto circoscritte e il pubblico molto radical, LinkedIn è uno strumento che uso per lavoro e dove parlo di lavoro – un lavoro che amo, ma è pur sempre lavoro; Instagram mi piace molto, ma è uno spazio molto egoriferito e TikTok è troppo distante da me, non solo per un motivo generazionale, ma anche perché io non sono un creator.
Su quale altro social posso parlare di quello che mi è successo a lavoro o del risultato della mia squadra del cuore, esprimere il mio parere sulla politica o su una serie che ho visto e postare un articolo di giornale che mi ha colpito? Ancora nessuno, e probabilmente non ce ne sarà mai più uno perché alla generazione Z tutto questo non interessa. Non con la stessa intensità, almeno.
In questo percorso siamo noi che siamo cambiati, la piattaforma è solo uno strumento, con una diffusione tale da non permettere, sempre secondo me, di prospettarne una debacle totale. Bisognerà capire quando le nuove generazioni, che ora usano di più altri canali perché hanno altri bisogni o voglia di esprimere altri concetti (magari in formati diversi), diventeranno boomer cosa useranno per comunicare tra di loro.
(Marco Palasciano)
A breve ci troveremo dentro uno spazio che ha vent’anni. Due decenni, un tempo enorme per il nostro millennio, un tempo che ha visto dei ventenni diventare quarantenni, cambiare linguaggio, cambiare prospettiva, innamorarsi di una novità e poi annoiarsi, evolvere. Non sappiamo cosa accadrà alla piattaforma – che a me sembra ancora godere di ottima forma – ma cosa accadrà a noi, sì: invecchieremo. Qualcuno diventerà più saggio, qualcun altro più rincoglionito.
La verità è che Facebook è nato per restare in contatto con le persone che abbiamo conosciuto: gli ex compagni di appartamento, gli ex colleghi, le coppie che sono scomparse dalle feste da quando hanno avuto un figlio. Facebook serve a mantenere i contatti con le persone che si conoscevano una volta. Ma non hai così tante di quelle persone con cui restare in contatto quando hai quindici anni. Ecco perché i giovanissimi lo ritengono uncool.
È un dato di fatto che Facebook sia per lo più abitato da grandi, – mi dice Veronica Gentili – questo anche perché i ragazzi non vogliono condividere lo spazio social con la mamma o con il nonno. Nella famiglia Facebook c’è Instagram con delle feature pensate per i più giovani, vedi i Reels e le Stories. Noi continuiamo a parlare di social in senso stretto, ma Zuckerberg sta parlando da anni di metaverso: interazioni offline e intelligenza artificiale. Non si tratta più di un social, almeno non per la socialità online che intendiamo oggi.
Da una parte il metaverso, la realtà virtuale, l’advertising spinto. Dall’altra la voglia di tornare a una socialità più intima – soprattutto dopo il lockdown –, a delle community più ristrette e a una forma di sottoscrizione, seppur minima, piuttosto che all’esposizione continua alla pubblicità. Si chiama Post Social Media Era, e ci sto scrivendo un libro insieme a Sebastiano Zanolli. Non molto tempo fa, la capacità di connettersi con chiunque sul pianeta, condividere informazioni e trovare le persone e le cause a cui tenevamo veramente era una promessa eccitante. Per la prima volta nella storia dell'umanità, non eravamo limitati dalla posizione fisica, dal background o dai vincoli di tempo: chiunque avesse una connessione Internet funzionante poteva andare online e trovare la propria tribù. Quando i social media sono emersi, nei primi anni 2000, hanno presto assunto il compito di costruire comunità su Internet. Abbiamo creato profili, chattato con amici e sconosciuti, realizzato gruppi e usato i feed per rimanere aggiornati sulle cose che ci piacevano.
Ma presto la realtà ci si è presentata davanti. Le piattaforme che promettevano di connetterci hanno iniziato a capitalizzare il nostro desiderio di connessione, appartenenza e curiosità; gli algoritmi a controllare ciò che vedevamo nei nostri feed; i dati sono stati raccolti per migliorare la pubblicità e le piattaforme ottimizzate per tenerci attaccati agli schermi.
I social media sono diventati la nuova televisione.
Il nostro desiderio di trovare comunità e connessione non è cambiato. Al contrario, si sta adattando a una nuova fase, l'Era Post-Social Media: un futuro che sta emergendo dagli insegnamenti degli ultimi vent’anni di costruzione di comunità online.
Tu che idea ti sei fatto di questa evoluzione?
Noi de La Content, nel frattempo, abbiamo creato il nostro spazio Post Social Media Era. Si chiama La Circle e anche se Facebook continua a starmi molto simpatico, vado lì quando posso per parlare con qualcuno senza litigare.
Nei giorni passati, comunque, il New Yorker ci ha inviato a non parlare più di generazioni: It’s Time to Stop Talking About “Generations”.
Non c’è motivo di supporre che i più giovani siano più propensi a essere vittime passive della tecnologia rispetto agli anziani (questa supposizione è il classico pregiudizio del vecchio), e ha senso che, essendo cresciuti facendo tutto su un computer, i Gen Z-ers abbiano una comprensione più completa dell’universo digitale rispetto ai dinosauri analogici. I dinosauri possono dire: “Non sapete cosa vi state perdendo”, ma i Gen Z-ers possono dire: “Non capite cosa state ottenendo”.
Vale la pena leggere l’articolo, anche se è lunghetto. Adesso che alzo la testa, mi accorgo che anche la mia newsletter lo è. Forse troppo per questi tempi. Quindi metto un punto e aspetto che tu mi scriva la tua opinione.
Volevo parlarti di Squid Game, ma rimandiamo il discorso alla prossima volta. L’unica cosa che mi pare evidente è che la Corea del Sud abbia un impatto smisurato sulle nostre vite rispetto alle sue dimensioni. È l’ultimo articolo, giuro.
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.
P.S. Il 5 novembre facciamo un Open Day in cui presentiamo il corso di Storytelling e Scrittura de La Classe. Con me ci saranno Fabio Fanelli, Alessandra Minervini ed Ettore Zanca. Tutta bella gente. Se vuoi venire, sappi che è gratis, ma i posti sono pochi.
Anch'io sto avendo questa impressione riguardo i social. Tempo fa mi ero proposto di selezionarne categoricamente uno ed escludere tutti gli altri. Ho fallito in questo intento, perché non volevo rinunciare a funzioni e comunità che mi sono care. Ad oggi mi mantengo attivo su Ig e facebook, ma credo che comincerò ad usare anche LinkedIn.
Bella la storia del Montenegro! Io mi iscrissi su Facebook poco prima di partire per il primo Erasmus, e mi vergogno molto di cosa postavo 12 anni fa, tipo: "come fare la frittata in Polonia".