Telefonare stanca
La No call generation e l'abitudine di non telefonare più. Siamo diventati molto più discreti o abbiamo timore di misurarci con gli altri?
«Una telefonata allunga la vita», diceva una vecchia pubblicità. Forse è stato questo tipo di messaggio a convincerci, col tempo, che la vita era meglio accorciarla in “slot”, il più delle volte in videoconferenza. Gli americani, che a dare nomi sono sempre più fantasiosi di noi, parlano di “No call generation”. E non intendono, nello specifico, una generazione in particolare – sebbene vedremo che per i più giovani quella di evitare il telefono è ormai una consuetudine – ma una tendenza: non si chiama più.
Ci sono varie argomentazioni, alcune anche molto valide, dietro il timore della telefonata. Prima fra tutti, l’effetto sorpresa. Una volta, lo squillo del telefono poteva annunciare qualunque cosa: ricordo ancora quanto mi battesse il cuore quando chiamavo l’amica di scuola a casa e mi rispondeva il padre. Ed ero costretto a presentarmi, schiarendo bene la voce per non sembrare timido, impacciato o peggio ancora maleducato: «Buonasera, sono Cristiano, un compagno di classe di Francesca. Se c'è, potrebbe passarmela, per favore?». In momenti di particolare tensione, aggiungevo un gentilmente o un avverbio di troppo. Ci vuole un attimo a passare dall’educazione alla riverenza.
La paura di disturbare
Però era una bella palestra di confronto, anche perché spesso la motivazione razionale che ci diamo oggi, quando decidiamo di optare per un messaggio asincrono in luogo di una telefonata – “meglio non disturbare a quest’ora”, “meglio lasciargli il tempo di cercare una risposta attendibile” –, è la giustificazione con cui copriamo quella emotiva. Non ce la sentiamo noi, questa è la verità. Figurarsi un ragazzo o una ragazza che sa di poter risolvere tutto con un cuoricino su Instagram o con un like sotto un post. La paura di disturbare, di essere respinti, di vedersi sminuiti da una risposta fredda o poco gentile gioca a sfavore dell’opzione telefonica. E poi ci sono – come ha scritto Lorenzo Cavalieri in questo articolo de Il Sole 24 ORE uscito a ottobre – l’ansia di misurarsi con un altro punto di vista, il disagio di ascoltare anche quando non si va d’accordo, la fatica di negoziare, di sentirsi dire di no.
Ti ricordi quando si compravano le suonerie per il telefono?
Siamo passati da un’epoca – che oggi sembra lontanissima – in cui acquistavamo suonerie a una in cui nessuno le usa più. I nostri smartphone sanno già chi c’è dall’altra parte, il fattore sorpresa diventa quasi sempre fattore seccatura, abbiamo perso la capacità di immaginare delle storie. La No call generation è anche una conseguenza di troppe interruzioni, telefonate senza senso, call center che hanno invaso la nostra privacy, social media always on. Non dire questo sarebbe scorretto. Eliminando le telefonate, nel lavoro e nelle relazioni quotidiane, perdiamo sfumature profonde di significato. Ci siamo abituati a reazioni che vanno oltre il testo, chiedendoci: «In quanto tempo mi risponderà?», «Ha usato le faccine?», «Ha visualizzato e non ha risposto, cosa vorrà dire?».
Ci poniamo queste domande perché istintivamente sappiamo che la comunicazione è un insieme di parole solo in parte. Ci perdiamo a rileggere i testi mille volte per capire cosa c'è dietro un avverbio o un aggettivo, convinti che grazie ai messaggi perderemo meno tempo, quando invece è ancora vero che una telefonata di cinque minuti, spesso, ci toglie ogni dubbio e ci risparmia scambi lunghissimi via chat o email. Nelle relazioni sta diventando un problema: i più giovani si nascondono dietro una chat, non hanno il coraggio di chiamare senza prima avvisare, anche in assenza di un motivo. Ci si chiede «Dimmi?» piuttosto di «Come stai?», pensando che, se si telefona, ci deve essere un motivo davvero urgente e non il bisogno di scambiare due chiacchiere. Nemmeno FaceTime o le videochiamate possono sostituire la bellezza di una telefonata. La necessità di raccontare a voce, di descrivere, di ascoltare una voce. Di accettare i silenzi.
E nel lavoro?
Siccome mi è stato detto che questa newsletter è molto bella, ma ti fa porre un sacco di domande, mi sembrava corretto dare anche un po’ di risposte. Quando, quindi, è meglio telefonare?
A mio parere, dobbiamo distinguere tra due piani: ciò che è conveniente per noi e ciò che è conveniente (e, al tempo stesso, efficace) per il destinatario. Come sempre, le negoziazioni – e la telefonata spesso lo è – funzionano quando l’opzione è win-win. Trovo sempre poco efficace l’opzione «Cristiano, ti posso disturbare cinque minuti al telefono?». Ne avevamo già parlato, ti ricordi? Usare il verbo “disturbare” è sbagliato. Viviamo un’epoca in cui, effettivamente, la telefonata è un’interruzione, un disturbo, un’incombenza. E quindi boccio anche l’opzione – ammesso che ci si voglia annunciare, vedremo come la scelta della chiamata a freddo non sia sempre sbagliata – «Ti posso chiamare che faccio prima?». Chi fa prima? Io o tu? Allora molto meglio scrivere «Guarda, ti chiamo un attimo che la risolviamo in cinque minuti». Risolutezza, è questo il motivo per cui stiamo evitando di continuare a mandarci email.
La telefonata a freddo, per molti ancora e più semplicemente “la telefonata” (Perché mai dovrei annunciarmi, pensano), viene usata di solito dai call center, da gente che ha particolare confidenza con noi o da superiori. Mi spiego: un capo tende a non annunciarsi, vuoi per motivi anagrafici – in passato si faceva così –, vuoi per questioni di leadership. Banalmente, vale il concetto “Se ti chiamo io, mi devi rispondere”.
La telefonata è, però, molto utile e giusta in alcuni contesti, non necessariamente commerciali (lì è fin troppo facile, si usa la chiamata per provare a cogliere di sorpresa il destinatario, pratica che, a mio parere, non funziona più). Per esempio, io la uso con partner lavorativi con cui ho particolare confidenza. Con Laura Busetti, che la chiama telefonata wild, con Matteo Pogliani o con Elisa di Hoepli. È un modo per affrontare argomenti seri in maniera leggera, senza un’agenda troppo strutturata e con la possibilità di poter mischiare argomenti professionali con altri (gossip, vita, calcio, libri), che restano fondamentali per rapporti di lavoro a lungo termine. Oppure la uso con una collega come Isabella, con la quale ho una grandissima confidenza e ci divertiamo proprio a stuzzicarci con telefonate a sorpresa dalle quali però, spesso, usciamo con nuove idee. È una nostra particolarissima concezione di brainstorming.
Ho chiesto a Laura di dirmi la sua.
Prendi il telefono, chiama
Se dovessi suggerire una ricetta, così ti lascio anche dei compiti a casa, ti direi di tenere lo spazio per un paio di telefonate wild al giorno. Quelle in cui fai un complimento a un/una collega, parli di un progetto passeggiando – da qui l’importanza di telefonare e non sostituire questo mezzo con la call, “camminando i pensieri si levigano, è una regola fisica”, come dice Enrico Brizzi. Quelle in cui, a fine giornata, fai un bilancio a PowerPoint spenti (questa è mia, se ti piace usala).
E tu che rapporto hai con il telefono?
Se me lo vuoi dire a voce, questo è il mio numero: 3386287834. Se sono impegnato e non ti rispondo, ti richiamo. Intanto ti auguro un buon fine settimana. Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta.