Togli la paura, lasciami sognare in pace
Dove si parla di una settimana a Fuerteventura, di nomadi digitali (o nomadi e basta), della calma del surfista, di paura e rispetto, di 5 tipi diversi di salario, di evoluzione e di regole.
Un articolo molto speciale
La calma del surfista
Con lei aspetti l'onda
E parti alla conquista
Di una strada sempre diversa
Di una vita che sembra persa
Che si riprende in colpo di reni
O con una caduta senza problemi.
Bandabardò, Venti bottiglie di vino
Una settimana fa non ci volevo venire, a Fuerteventura.
Stavo per cascarci di nuovo. Ancora una volta le troppe cose da fare, i pensieri, le scadenze. Un paio di appuntamenti da spostare, l’ansia di perdermi non so che cosa, il timore di fare una nuova valigia. Dopo che le faccio da vent’anni, praticamente. E mica mi passa mai. I treni, gli aerei, l’orario diverso. Stavo per mandare tutto all’aria: “tanto il biglietto dell’aereo l’ho prenotato prima, non ci ho speso poi così tanto.”
E il treno io l’ho preso, e ho fatto bene.
Nicolò era felicissimo di vedermi, all’inizio non ci credeva nemmeno lui che lo avrei fatto, poi una sera di settembre gli ho scritto “Vedi che ho prenotato”. È bellissimo quel “ vedi che”, molto barese. È un avviso, come se dicessimo “non ci credevi ma l’ho fatto”. "Qui ho conosciuto meglio Gherardo che avevo incontrato soltanto ad ABCD a Bari Capitale Digitale, Giulio Xhaet col quale ho condiviso la stanza per qualche giorno, - aveva un meeting mercoledì a Milano, ma ha detto “vabbè anche se sto due notti vengo lo stesso” - Ilaria che ha l’entusiasmo dei 24 anni e una maturità che non pensavo di trovare in una persona così giovane, Nicola un romano che vive a Tiblisi, in Georgia, e già questa è una storia; Alin e Luca anche loro giovanissimi ma che hanno scelto di stare un po’ con noi - spero - anche per rubarci qualche segreto come giusto che sia. Io nel frattempo rubo un po’ del loro coraggio e della loro incoscienza, che serve sempre. Quando li vedo lavorare qui nel coworking mi sento più fiducioso verso il futuro. E poi Federica che mi mette serenità solo a vederla e mi ha promesso un coaching, Giacomo, Peppe e la sua brace accesa, l’altro Luca che ha un lido in Puglia che non vedo l’ora di visitare e con il quale siamo diventati amici di karaoke, perché mica c’è solo il lavoro qui. Non conoscevo bene nessuno di loro, ora sento di condividere molte cose con loro, nomadi digitali come me.
O forse nomadi e basta, perché non c’è bisogno di rendere più nobile con l’aggiunta di “digitale” una parola già bellissima.
Nicolò ha riassunto benissimo, in un post su Linkedin il motivo per il quale siamo qui:
Abi Bouhmaida sostiene che ogni lavoro ha 5 tipi di salario:
💰 Finanziario: soldi, stock option, assicurazione, e così via
🧠 Psicologico: quanto ti fa stare bene dentro e fuori, quanto ti piace quello che fai e quanto ti senti allineato ai valori dell’azienda
🎊 Sociale: il prestigio, il biglietto da visita, il ruolo che ti viene riconosciuto
📜 Educativo: le competenze, le relazioni e l’esperienze che contribuiscono al tuo sviluppo personale e professionale
🤠 Libertà: la flessibilità spazio-temporale e de decidere come fare quanto richiesto.
Il problema, secondo Abi, è che quando valutiamo un lavoro badiamo troppo a soldi e prestigio, e poi stiamo male. Mentre in fase di (ri)negoziazione dovremmo concentrarci su condizioni che per noi hanno molta importanza e che per l’azienda potrebbero essere relativamente facili ed economiche da concedere.
La chiave è mettersi sempre dalla parte dell’azienda, e chiedersi: come posso ottenere quello che voglio e far stare tranquilli tutti?
- scambiando obiettivi con orari?
- investendo in competenze con un piano preciso per sfruttarle al meglio?
- mostrando i rischi economici di pratiche poco sane e i benefici di certe soluzioni?
Mi chiedo e vi chiedo cosa e come altro fare, perché è qualcosa che può cambiare la vita di molte persone, e il progresso socioeconomico del nostro Paese.
E vi mostro una foto di persone felici che questa settimana hanno scelto di lavorare insieme da Fuerteventura 🏄♂️
Dal diario della gratitudine
“Sai una cosa? Io non vorrei essere qui in ferie. A me piace il mio lavoro, molto. Mi appassiona. Vorrei essere qui a fare esattamente quello che sto facendo. Che poi è anche quello per cui ho lottato, in tutti questi anni: fare qualcosa che mi piace, e farlo da dove voglio”. Tratto da: le conversazioni notturne con Giulio Xhaet.
Ho fatto per la prima volta il bagno a novembre, ho lavorato con persone meravigliose, ho comunicato in tre lingue e ho la certezza di non essere quello più intelligente nella stanza. Ma sono quello che si sveglia presto e va letto molto tardi. Si chiama premura di vivere.
Magari altri sono abituati, ma io no.
Stare qui a vedere il mare, e a tuffarmi dentro, il 1 dicembre, è il più bel regalo che mi potessi fare. È il “come” del mio lavoro, prima ancora del perché. A volte ci raccontiamo scuse per non dire che abbiamo paura, che ci caghiamo addosso a rinunciare a “quelle quattro cinque cose in cui non credi neanche più”. Ma non avete idea delle cose che si possono fare, e di quanto felici si possa essere, mollando quelle paure.
Ho anche provato a fare surf, con risultati piuttosto disastrosi devo dire. Ma ho imparato tre cose che non dimenticherò:
La prima cosa che devono fare i surfisti, prima di entrare in acqua, è valutare la direzione delle onde: come si muove il mare. Poi, in seconda battuta, i potenziali rischi. Per questo ti dicono di prendere un punto di riferimento sulla spiaggia. Valutazione della corrente e dei rischi, poi ci si tuffa. Non è forse quello che dovremmo fare ogni volta che ci approcciamo ad un progetto? Se non hai studiato il contesto, come puoi approcciarlo al meglio?
La paura non ti fa alzare in piedi. Le gambe ti tremano, ti sembra tutto impossibile. Se togli la paura e lasci il giusto timore reverenziale, che pian piano diventa rispetto (del mare, delle onde, delle sue regole) riesci a stare in piedi. Poi quando pensi “allora sono bravo” cadi di nuovo. È tutta una questione di rispetto e concentrazione.
I surfisti hanno delle regole. Come tutte le community. Non amano il casino, hanno un rapporto strettissimo con la natura, la assecondano. Se sei un principiante (come me) devi dichiararlo e cercarti un posto lontano dal loro.
Poi ho capito tante altre piccole cose, ma proprio perché sono un principiante me le tengo per me, direi che tre sono già abbastanza per uno che sta in piedi per 10 secondi al massimo. Dovremmo anche ricordarci che qualunque passione che sembra fighissima (e il surf è certamente una di queste) implica sacrifici: alzarsi presto la mattina, il freddo, prendere ondate in faccia, cadere, rialzarsi, nuotare di nuovo fino ad un onda che forse non arriverà mentre la corrente ti riporta a riva. Ricominciare. Mettere la muta, togliere la muta, pulire la tavola prima di rimetterla sul van, scoprire che non si sa come e dove ci siamo feriti, dedicare due ore del proprio tempo per stare in piedi pochi secondi nel caso di un “professional beginners” come mi ha chiamato Antonio from South Africa, il mio istruttore.
Perché nel lavoro non consideriamo tutto questo?
Perché vediamo solo la parte luccicante della medaglia e non tutti i sacrifici che ci sono dietro?
Gli story-gate della nostre esperienze
La settimana scorsa è iniziata La Classe di Digital Storytelling. Ho parlato di gioventù, sfide, desideri e maturità. Esattamente in questo ordine, chiasmico. Ho scelto le parole di Rossella Tota, una corsista, per fare un sunto della lezione:
La prima lezione del corso si apre con una raccomandazione: lasciate a casa la timidezza. LaClasse è fatta di docenti, di studenti e soprattutto di persone che sono chiamate a intervenire, a dire la propria e a mettersi in gioco durante le tre ore di lezione, anche correndo il rischio che diventino quattro, perché il gioco può farsi molto interessante.
Il filo conduttore della prima lezione è stato questo: posizionare un’azienda con una storia. Tra i punti cardine c’è il ruolo dello storyteller in campo digital, l’importanza della notiziabilità di una storia, la necessaria alleanza tra content marketing e storytelling che permette di creare delle porte (story-gate) per andare sempre più in profondità e fare breccia nel pubblico che si nutrirà dei contenuti creati.
Perché una bella storia resta una bella storia, se non vende e la vendita è uno degli obiettivi di conversione che spesso viene chiesto di rispettare a chi lavora nella creazione di contenuti. Tuttavia, il panorama in cui un professionista dello storytelling si muove è costantemente in evoluzione: lo dimostrano l’avvento di Facebook, Instagram e TikTok e la trasformazione di queste piattaforme verso l’intrattenimento e non più l’informazione pura.
Lavorare in un contesto così dinamico richiede dinamicità e adattamento e, per quanto non servano grandi budget per creare grandi storie, per partire con il piede giusto serve una buona storia e la capacità di saperla trovare: una storia che parli a un pubblico sempre più bombardato da contenuti, sempre più disattento, sempre più annoiato.
Forse. Magari non è così annoiato. Prenderei in seria considerazione l’idea che siamo noi ad annoiarlo con quello che scriviamo.
Per riuscirci è utile conoscere a chi si vuole raccontare, il contesto in cui vive, le scelte che fa e i cambiamenti che ne derivano. Da qui, chiedersi:
Cosa vogliamo trasmettere?
Chi vogliamo diventare?
Che tipo di narrazione vogliamo costruire?
Quella che ho raccontato:
“Non è la mia storia (quella non interesserebbe a nessuno), ma quello che mi è capitato”
E spero di aver lasciato almeno 5 punti fermi:
Lavorare nello storytelling significa evolvere sempre;
Bisogna essere rivolti al futuro, ma avere una necessaria conoscenza del passato;
Non serve schifare i soldi, perché uno storytelling col portafoglio vuoto non può fare cose fighe (questa è di Giorgio Soffiato, ma mi è piaciuta tanto);
Il personal branding è una questione di equilibrio: se comunichi troppo perdi il tuo focus (il lavoro); se comunichi poco rischi di non essere ricordato;
Serve imparare a dire di no, ma anche di sì.
Un po’ come ho fatto io con Nicolò e con questo bellissimo gruppo di Fuerteventura. Ho detto di sì ad una cosa che (per pigrizia) non volevo fare.
Io sono Cristiano Carriero e questa è L’ho fatto a Posta, Fuerteventura edition.
Oggi è il 2 dicembre e tra poco più di un mese inizierà il primo corso de La Content con Lucy: si tratta de “La mia famiglia e altri animali”. Anche qui, ti dico tre motivi per fare questo corso:
Anche se non hai un romanzo nel cassetto o nella testa, non hai idea di quanto possa essere efficace, professionalmente parlando, migliorare la propria capacità di raccontare e scrivere. E quanto sia utile partire dalla famiglia: una fucina di storie ricca di legami, conflitti, amore, rimorsi e rimpianti, equivoci, vicinanza, vuoto, ricordi.
Se hai una storia nel cassetto, non ci saranno altre occasioni come questa di incontrare autori, editor, scrittrici e scrittori che possono aiutarti e indirizzarti.
I più bei racconti verranno pubblicati su Lucy Sulla cultura. il magazine diretto da Nicola Lagioia. Superfluo che ti spieghi cosa vuol dire essere pubblicati lì.
Per qualunque dubbio, perplessità, domanda, scrivimi pure (o chiedimi un codice sconto). E non dirmi che non hai una storia nel cassetto perché, sinceramente, non ci credo.
E se non ce l’hai dovresti averla. Ti aiuterebbe molto.
pps: ci siamo quasi con la traduzione in spagnolo di 24 dicembre, si chiamerà La noche buena. Ma sarà per il prossimo Natale. Intanto potresti leggerlo in italiano e dirmi cosa ne pensi.
Ti abbraccio forte, e spero di sentirti presto.