Che brutta parola, fratellastro
Dove avrei dovuto parlare di tante altre cose, ma all'improvviso me ne è successa una più bella e inaspettata.
Ieri ho scritto l’ultima pagina del mio diario della gratitudine, almeno per questo periodo. Non ho smesso nemmeno per un giorno dal 30 ottobre, è stato un crescendo di momenti che mi ha aiutato a capire quanto contano, davvero, le cose piccolissime. E per “piccolissime” intendo la sensazione che si prova a mettere i piedi in un ruscello di acqua ghiacciata dopo una camminata, trovare una vecchia foto di mia madre in crociera con una amica, ricevere una telefonata inaspettata da un amico il sabato mattina. Ma non voglio che diventi un esercizio di stile o peggio ancora una abitudine.
Continuerò in altre forme, in qualche modo ho interiorizzato la cosa, spero di dare una mano al progetto Gratitude Polaroid di Federico Favot che ringrazio per avermi fatto comprendere il senso più profondo della gratitudine. E poi mi è successa una cosa strana, una di quelle difficili da spiegare e persino da scrivere. Una cosa grande, mica tanto piccola. Proverò a raccontartela scomodando un pezzo tratto da 24/12, il mio romanzo:
Mio fratello Alfonso è sempre stato il mio idolo indiscusso. Nutrivo per lui un'ammirazione che facevo fatica a confessare. Mia madre sorrideva a mezza bocca ogni volta che lo sentiva nominare. Da piccolo non riuscivo a capire il perché, quello che era evidente è che lei ci teneva a rimarcare la vera natura di quel legame.
"Si chiamano fratellastri, Ernesto", lo diceva e nel frattempo piegava la biancheria stirata con lo stesso vigore con cui voleva chiudere il discorso.
"Ma perché, mamma, non posso chiamarli fratelli?", le rispondevo, quasi a chiederle il permesso.
"Puoi chiamarli come vuoi, amore mio. Però quando si è figli dello stesso padre e di una mamma diversa, non si ha lo stesso sangue e si chiamano fratellastri", mi rispondeva, incurante del fatto che la cosa potesse o meno ferirmi.
"E Sergio e Alfonso sono fratelli, quindi?", aggiungevo.
"Loro sì, hanno lo stesso sangue", mi rispondeva, come presagisse qualcosa. Mio padre restava in silenzio, nella stanza accanto. Lo vedevo che era attento al discorso, ma faceva finta che non lo riguardasse. Avevamo tutti lo stesso cognome, e questo per lui bastava. Io ero il frutto di un amore adulto ma sincero, il dono inaspettato per una donna che ormai pensava di non avere più figli e per un uomo troppo maturo per tenere tra le braccia un neonato. Ancora oggi, quando riguardo le foto di allora, quelle dei miei primi anni di vita, mi si stringe il cuore per lui. Ha la faccia felice, ma imbarazzata. L'aria di un uomo che quasi chiede scusa per aver messo al mondo un terzo figlio a sessant'anni pur sapendo di non avere tutto il tempo che desidera per goderselo in ogni fase della sua vita.
Non ne ho mai parlato con mia madre. Ogni tanto le chiedevo se papà non fosse troppo grande per lei e mi rispondeva solo che si era innamorata perdutamente e che non le interessava nulla della sua età, del fatto che fosse stato sposato con un'altra donna che le avrebbe reso la vita difficile, molto difficile, e dei due figli nati dal matrimonio precedente.
"Io voglio bene a Sergio e Alfonso, li ho conosciuti quando erano ancora piccoli", mi diceva.
"Gli vuoi bene come si vuole bene a dei figli?", le chiedevo.
"Io ho solo un figlio, e sei tu. Ma a loro voglio bene perché amo tuo padre".
C'era sempre qualcosa di molto rassicurante in quelle sue parole. In quel suo "amo" non c'erano controindicazioni: non era stima, non era affetto, era amore incondizionato, e si sentiva tutto. Quei suoi pensieri mi facevano sentire unico.
Eppure, la parola "unico" non mi piaceva. Non ce la facevo proprio a sentirmi un privilegiato. Percepivo, anzi, un senso di solitudine. I figli unici che conoscevo erano tutti un po' viziati, io invece non avevo questa fortuna, e nemmeno la volevo: dove mia madre mi concedeva un lusso di troppo – che fossero il motorino, i soldi, le vacanze – c'era sempre mio padre pronto a ricordargli che con Sergio e Alfonso era andata diversamente.
Nessuno dei miei amici era figlio unico: Sandro aveva una sorella che si sarebbe buttata nel fuoco per lui; Francesco un fratello, Diego, solo di un anno più grande, che per partito preso faceva l'opposto di quello che piaceva a lui. Se Fra ascoltava sempre musica italiana, lui metteva a tutto volume il rock, se uno prendeva la pizza, l'altro l'hamburger, se uno seguiva l'Inter, l'altro tifava per il Milan. E così via. Giovanni aveva un fratello e una sorella, ma non erano fratellastri solo per via di quei legami di sangue tanto cari a mia madre. Entrambi più grandi di lui, scelsero di andare a vivere con il padre nella villa dell'Olgiata, a Roma. Giovanni restò a Bari con la madre, in un pacchetto che comprendeva la casa in cortile, la cantina e il mantenimento. Quando tornavano, Michele e Alessia parlavano romano e passavano tutto il tempo al telefono con i loro nuovi amici. Il tempo di un fine settimana con la madre e pochissimi momenti passati con il loro fratello più piccolo e tornavano alle loro vite. Eppure loro due erano fratelli, senza dispregiativi.
Alfonso non si era mai voluto iscrivere all'università. Mio padre gli disse che per lui andava bene, a patto che iniziasse a lavorare. Sergio, invece, era iscritto a Scienze Politiche a Bologna. Prendeva bei voti, parlava inglese e francese e non faceva nulla per sembrare simpatico. Ogni volta che tornava a casa per fermarsi qualche giorno con noi, mi portava un rompicapo di logica o mi chiedeva di giocare a scacchi. Non avevo ancora compiuto otto anni, ma nessuno dei due, nonostante la differenza di età, mi trattava come una mascotte. Con Sergio non mi divertivo, ma non posso dire nemmeno che mi annoiassi: lo rispettavo molto e le sfide a scacchi erano sempre molto appassionanti. Però non ricordo nulla di quel gioco, delle regole e nemmeno se avessi davvero imparato o lui mi guidasse mossa dopo mossa. Non ricordo neppure se il cuore mi batteva quando stavo con lui, mentre posso dire con certezza che passare del tempo con Alfonso mi faceva sentire qualcosa di molto vicino all'eccitazione. Ero in fibrillazione ogni volta che entrava in casa, ne studiavo i movimenti, anche se mia madre non era tranquilla sul fatto che avessi come idolo uno scapestrato. Uno che si era fatto persino bocciare a scuola e che mai avrebbe trovato lavoro alla Banca del Salento se non fosse stato per la raccomandazione di mio padre.
Alfonso entrava in camera, si toglieva le scarpe e accendeva lo stereo. Non mi chiamava, ma quando mi vedeva sulla porta mi faceva un gesto con la mano.
"Che fai lì, entra", mi sorrideva.
Io acceleravo il passo, per non perdere l'occasione. Avevo paura che ci ripensasse. Non consentiva a nessuno di disturbarlo mentre ascoltava la musica. Ma per me faceva un'eccezione.
"Questo – mi porse un vinile – è il disco in cui c'è la canzone più bella del nostro poeta. La vuoi ascoltare?".
Rimasi ad aspettare, non avevo nemmeno bisogno di rispondere. Il pezzo era Titanic, il nostro poeta era Francesco De Gregori. Il suo cantante preferito, ne conosceva ogni parola, ogni strofa, ogni pausa.
"Quando la canta ai concerti gli dà un altro ritmo. Il poeta è così, non ama che gli altri cantino con lui. Mica è un guitto".
Ignoravo il significato della parola guitto, ma iniziai anche io a soffermarmi sulle parole, su quel viaggio davvero mondiale e su quella luna gigante.
Con Alfonso non imparai solo ad amare la musica. Lui era quello che fermava il disco per ripetermi le frasi più belle. Con Sergio ero diventato piuttosto abile con la logica, ma con Alfonso riuscivo a memorizzare dischi interi.
"Ma è possibile che un bambino conosca a memoria cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente?", scherzava mia madre nei rari momenti di confidenza con lui.
"Le ascolta una volta e le impara. Gli ho anche insegnato qualche accordo alla chitarra, è più bravo di me. Perché non lo iscrivete a un corso?", rispose una sera Alfonso.
"Perché deve studiare, e poi già va a calcio", aggiunse mia madre.
"È scarso a pallone", disse Alfonso e, mentre lo diceva, cercò lo sguardo di mio padre.
"Ti ricordo che tu nel Bari sei durato qualche mese, non volevi nemmeno allenarti", gli rispose a tono mia madre.
"Quello è il problema di chi ha troppo talento, ma non è il caso di Ernesto. Iscrivetelo a un corso di canto o di chitarra, fidatevi di me", e se ne andò.
Nessuno lo sentì, ma da quel giorno decisi che avrei imparato da solo a suonare tutte le canzoni che ascoltavo. E ogni volta che mi imbatto in una canzone del nostro poeta, penso al fratello che non ho mai potuto chiamare così.
Non vedevo mio fratello dal giorno del suicidio di mio padre. Cliccando su questa puntata della newsletter puoi capire quanti anni sono passati. Ho scritto del nostro incontro nel diario della gratitudine, poi ho controllato la punteggiatura e l’ho chiuso per sempre. Per ora, va bene così.
Io sono Cristiano Carriero, e questa è L’ho fatto a Posta. Avrei dovuto parlare di altro: della bolla della AI, di tre brand invernali che hanno puntato su un posizionamento estivo, dei miei prossimi eventi, ma ci sarà tempo e lo storytelling più aspettare.
Fa conto che ti ho scritto una lettera per raccontarti una cosa bellissima che mi è capitata. Più che mi è capitata, che ho fatto succedere. Ci tenevo.
ps: visto che questa puntata è letteraria, ti faccio un altro piccolo regalo. L’anteprima dell’audiobook di Domani No, che uscirà nel 2025. Buon Ascolto!
ps: questo fine settimana sarò a Yell a Barletta, dalla prossima e per tutto il mese di luglio mi trovi a Dublino per un viaggio di lavoro e studio! Ci scriviamo da lì!
Ti abbraccio