La chat di famiglia (senza panni sporchi)
Dove si parla di vulnerabilità, di attaccamento alla vita e di comunicazione senza infrastrutture.
Mia moglie ha creato una chat chiamata “Family” su WhatsApp.
Dentro ci siamo io, lei e i suoi genitori. I miei non ci sono più da un po’, quindi non hanno avuto modo di vedere come si comunica negli anni Venti di questo millennio. Mia madre era una di quelle che alzava il telefono e con voce squillante diceva “Cristiano caro”, come se fossi un collega di vecchia data. Raramente chiedeva informazioni, era invece molto propensa al dialogo. Se c’è una cosa che mi manca, da quando non c’è più, sono quelle telefonate: quando le storie battevano i fatti. Lei era maestra in questo.
Di mio padre mi ricordo poco, l’ho perso quando avevo diciotto anni. Molti conoscono la sua e la mia storia, e io sono convinto vada raccontata perché la vulnerabilità aiuta. È importante prima di tutto per me, perché ogni volta che mi libero mi sento meglio – è stata la mia cura per tanti anni parlarne senza nascondere nulla – e poi penso lo sia anche per gli altri: quando sento parlare di depressione, mi viene spesso voglia di fermare il mio interlocutore e di chiedergli se sta pesando la parola. Mio padre ha avuto una di quelle forme di depressione senza via d’uscita, senza possibilità di ritorno. E una mattina di dicembre l’ho trovato impiccato in salotto. Sono l’unico della mia famiglia ad averlo visto, gli altri lo hanno sentito raccontare.
Non potevo vivere con questo segreto: mia madre non voleva si sapesse e per anni ha parlato di attacco di cuore, di brutta malattia. Si usa spesso l’espressione “brutta malattia” per chiudere la questione, ma nel caso di mio padre aveva un nome. E io non volevo dire bugie sull’evento che ha cambiato per sempre, e inequivocabilmente, la mia vita. Non sarei stato io, non sarei cresciuto alla stessa maniera, non avrei avuto questa malinconia negli occhi, ma nemmeno – probabilmente – lo stesso spasmodico attaccamento alla vita che mi porto dietro da allora.
C’è gente che ride per l’applauso al pilota
Io vedo solamente attaccamento alla vita
Alla vita.
(Brunori Sas, Lamezia Milano)
A me la chat “Family” piace. Ci trovo tanti aspetti che nella comunicazione di tutti giorni non rintraccio più: ci sono l’onestà, la leggerezza, la voglia di comunicare senza infrastrutture. Se ci pensi, nella comunicazione quotidiana, perfino nella messaggistica istantanea, non siamo mai sinceri al 100%. Soprattutto noi addetti ai lavori pensiamo tantissimo – e giustamente ci facciamo anche dei corsi – alla forma. Che cosa penserà il mio interlocutore se metto un punto esclamativo di troppo? E se uso il maiuscolo? E se sembro passivo-aggressivo? (Ultimamente Eleonora usa questa parola dieci volte al giorno). Le chat di famiglia, invece, sono l’esempio di quello che faremmo senza sovrastrutture. Pescati del giorno mentre io e Eleonora siamo in riunione, foto brutte di un padre che lava la macchina o di una madre che si mette in posa a Tropea durante una vacanza fuori stagione, le mie (sfocate) del nuovo videocitofono installato a Bari.
Il successo di un (anti)social come BeReal lo spiego così: nemmeno su WhatsApp ci sentiamo più liberi di comunicare in maniera davvero spontanea. Per fortuna, ci sono le chat di famiglia a farci notare che la comunicazione non è solo una scienza o un’arte. È, prima di tutto, un’esigenza dell’essere umano. Ricordarselo giova.
Meno di una settimana a La Masterclass
Manca davvero poco e io me la sto facendo addosso. Sì, hai letto bene.
Avremo tantissimi ospiti, il teatro è pieno e a me piace curare il dettaglio: il rischio è sempre quello di dimenticarsi qualcosa, dal momento che quando decidi che tutti quelli che partecipano a un evento devono essere non solo contenti ma entusiasti, e lo scrivi pure, ti assumi una responsabilità molto grossa.
Ma non saprei fare altrimenti. È proprio per questo che scrivo e che condivido: per far sì che le parole restino. Abbiamo messo su un programma che va oltre le nostre aspettative perché prima lo abbiamo pensato e poi, giorno dopo giorno, lo abbiamo costruito, aggiungendo talk, momenti di backstage, roba da bere e da gustare (non sia mai che manchi, come al solito), spettacoli. E i nostri spettacoli non sono mangiatori di fuoco – piccola polemica – ma creatori di mondi. Magari ci sarà qualcosa in meno da fotografare e molto di più da ascoltare! Lo stress da evento non mi consuma, comunque. Mi fa andare a dormire stanco ma felice, “stanco vivo” dicevo qualche settimana fa. Ce lo dobbiamo godere tutto questo eustress: un evento ha senso quando va oltre il suo stesso tempo.
La nostra festa non deve finire
Non deve finire
e non finirà.
Io sono Cristiano Carriero, e questa è L’ho fatto a Posta. Ti auguro buon fine settimana e, se ti ho fatto venire voglia di partecipare alla nostra festa del prossimo weekend (venerdì 21 e sabato 22), c’è ancora posto.
Molto interessante. Credo che le chat di famiglia siano una buona idea solo quando alla base c'è una famiglia con dei componenti realmente coinvolti. Mi ritrovo a metà nel tuo racconto. Ho perso mio padre quando ne avevo 27. Anche lui soffriva di depressione pur non essendo arrivato a un gesto estremo come il suicidio. Si è lasciato andare, logorato da fumo e alcool. L'ho visto farsi inghiottire da un buco nero, me lo immagino mentre mi guarda in modo interlocutorio e poi si volta per sempre. Mia madre non ha mai saputo riempire in qualche modo degli spazi rimasti per forza di cose vuoti. Che fossero di rabbia, di dolore, di sofferenza. Vive ancora ma si tiene tutto dentro, sbarrando lo sguardo e mordendosi le labbra quando spunta il nome di mio padre in qualche discorso. Io e mio fratello non ci siamo mai capiti, probabilmente divisi da una differenza di età troppo grande e mentalità diverse. No, credo proprio che la chat di famiglia non faccia per me. Ma grazie per il tuo racconto Cristiano :)