La figura chiave
Dove si parla di "come" si scrive, della crisi dei writer, degli sviluppi e delle opportunità della professione Content Marketer e di un libro attualissimo uscito 15 anni fa.
Meglio essere impiegabili che impiegati (auto-cit.)
Il mondo del lavoro è sempre stato diviso in "management e operativi": chi comanda e chi fa. Ma ora spunta un terzo soggetto: le figure chiave. Persone che hanno intuizioni, prendono l'iniziativa, creano i contatti, realizzano le premesse, organizzano il caos. Le figure chiave sanno come agire anche in mancanza di regole o istruzioni, rappresentano il punto di riferimento di colleghi e clienti, amano ciò che fanno e danno il meglio di sé come se ogni volta dovessero realizzare un capolavoro.
Sembra un pezzo molto attuale, in realtà sono passati già 15 anni dal libro - bellissimo - di Seth Godin La chiave di svolta. Le figure chiave sono parti essenziali del sistema. Magari misconosciute, ma indispensabili. E sul mercato si prendono i lavori migliori e godono di libertà sconosciute agli altri.
E tu? Quand’è l’ultima volta che hai preso un treno senza sapere dove andare?
Hai mai individuato una scorciatoia che nessuno aveva visto prima? Hai mai risolto un conflitto in maniera originale? Sei riuscito a creare un legame con qualcuno che gli altri consideravano irraggiungibile? Anche una volta soltanto? Ok, allora hai quello che ci vuole per diventare irrinunciabile.
Il mercato del lavoro ci chiede questo. Quello che Seth Godin aveva previsto, oggi è attualità. Prendiamo il mondo del Content Marketing:
Questo grafico di Bloomberry spiega perfettamente come l’ascesa di ChatGPT abbia indebolito molto l’impiegabilità di chi scrive per lavoro (Ehi mamma, so che non puoi leggermi, ma sono io!). I writer, in questa classifica, sono i più sostituibili, persino rispetto i traduttori - tempi duri anche per loro - e agli addetti al customer service.
Ieri un mio amico, - Alessandro sei tu -, mi ha mandato un messaggio per chiedermi un consiglio sul suo posizionamento e sul livello di personal branding. Il suo messaggio iniziava con “Sai, a me piace scrivere”. Mi sono sentito di dargli un consiglio che vorrei condividere anche con te, perché il grafico di cui sopra racconta, tra le righe, alcune verità altrettanto interessanti.
Prima, però, una premessa doverosa.
Non è solo colpa dell’intelligenza artificiale se la scrittura è in crisi. Esiste, ed è evidente, una crisi dei media, il mondo dell’informazione e quello dell’intrattenimento sono cambiati, le buone storie assumono forme diverse, più liquide. E l’abilità di uno/a storyteller è principalmente qui: nel sapere come creare iper-narrazione. Le storie si ascoltano, si guardano, si toccano, si leggono, si muovono.
Passando da una piattaforma all’altra. Prendi Mare Fuori (ok, se non lo hai mai visto cercherò di farti capire di cosa sto parlando): Crazy Jay fa la cantante, nella serie. Gli spettatori GenZ l'hanno già vista su Instagram e TikTok, dove si esibisce cantando delle cover. Nella fiction ruba - letteralmente - Origami all’alba ad un altro personaggio, Cardiotrap, la canzone diventa uno dei singoli più ascoltati su Spotify (non nella fiction, nella realtà), lei va a Sanremo. E ci va davvero, come Clara. Nella nuova stagione di Mare Fuori Crazy Jay canta un altro brano, scritto per la serie ma diventato un tormentone fuori dalla fiction.
Dietro questo “fenomeno” ci sono moltissime capacità: lo scouting di una potenziale influencer, la costruzione di una trama, quella di un personaggio, l’iper-narrazione portata fino all’eccesso. Ma di base ce n’è una: la scrittura.
Le storie si scrivono, le canzoni si scrivono, le strategie di comunicazione si scrivono. Ci può aiutare ChatGpt? Certo. Ma fa la differenza, sempre, il come.
È capace l’intelligenza artificiale di mettere in moto tutte queste connessioni? Ad oggi, no.
Il più grande errore che possiamo fare è considerare il nostro lavoro, quello di creativi, di storyteller, di pubblicitari, lontano delle dinamiche che muovono il mondo dell’intrattenimento. Ci cercano, e ci pagano, per aver idee memorabili, non per scrivere piani editoriali senza nessuna anima.
Ti dovevo una risposta, quella che ho dato ad Alessandro. Ad oggi per i writer c’è un ottimo mercato in questi ambiti:
Ghostwriting (vero, Federica?)
Scrittura di canovacci per video e reel
Scrittura di podcast e serie
Scrittura di progetti di Personal Branding (Linkedin, Newsletter, journal)
Scrittura di pitch efficaci (e vincenti)
Non è poco, se ci pensi.
Non è un caso che, sempre all’interno del grafico di Bloomberry, le voci accounting e sales crescano. Nel mio prossimo libro in uscita a maggio, Professione Content Marketer, ho raccontato come sono passato dall’ufficio Comunicazione e Immagine di una multinazionale, a fare l’account in una piccola agenzia di Ancona:
La multinazionale tascabile.
Ho mosso i primi passi nel mondo del content marketing nel 2005. Non è stato un inizio casuale. Certamente è stato rocambolesco.
L’occasione era andare a lavorare per una multinazionale “tascabile” (il suo presidente la chiamava così) di cui avevo sentito parlare talmente bene che prima di andare a fare il secondo colloquio – il primo lo avevo sostenuto a Roma – non avevo controllato nemmeno dove fosse esatta- mente la sua sede. Quando arrivai a Fabriano e feci un giro in città, pensai soltanto: “Vabbè, sei mesi passano in fretta”.
Indesit, ufficio Comunicazione e Immagine. Quella seconda parola, “immagine”, mi faceva venire voglia di indossare camicie con i gemelli e camminare a testa alta. Era chiamato anche “l’ufficio del Presidente”, perché era l’unico che nell’organigramma aziendale riportava a lui e non all’AD. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, Vittorio Merloni era così potente che i suoi due brand sponsorizzavano la Juventus e il Torino. Ci scrissi anche un pezzo di discreto successo intitolato Lo stagista e il Presidente.
Imparai parecchie cose in quei due anni alla Indesit.
Regola numero uno: l’ultimo arrivato fa la rassegna stampa. Controregola: l’ultimo arrivato fa la rassegna stampa se è capace e (soprattutto) se è affidabile. Quindi, niente scherzi con la sveglia.Regola numero due: non importa che impegni abbia la tua tutor, ma avrà tempo per te la sera, quando tutti sono già andati via.
E, infatti, ricordo benissimo le parole di Lea: “Eccoci, fido scudiero, che ne dici di guardare il comunicato stampa assieme, adesso?”.
Regola numero tre: la comunicazione è un tema tremendamente serio. Altro che “non salviamo vite”. Abbiamo contribuito a salvare reputazione, posti di lavoro, fatturati, forse anche qualche vita. Quando il mio capo mi disse: “Tu quando ti levi dal cazzo?”, risi.
E lui mi disse: “No, seriamente. Non posso tenerti”.
Uscii dall’edificio e piansi. Senza vergogna.
Ero felice lì dentro, ero incredibilmente felice a Fabriano
Account = il commerciale (sigh)
Di aziende non volli più sentire parlare per un po’ (ammesso che le aziende volessero sentire parlare di me). Volevo realizzare il mio sogno di fare il copywriter e comprai un sacco di libri sul tema.
Ma nessuno mi voleva come copywriter.
Un giorno lessi l’annuncio di un’agenzia che cercava un account e – senza farmi troppe domande su cosa facesse realmente un account in una pic- cola agenzia della Baraccola di Ancona – mi candidai. Decisi che tempo tre mesi e avrei fatto il copywriter.
Mi presero, e il primo giorno Francesca mi disse: “Questo è l’elenco dei contatti da chiamare, buon lavoro”. Io, che da piccolo non volevo rispon- dere nemmeno alle chiamate degli amici di scuola e inventavo ogni genere di scusa per non fare gli auguri agli zii al telefono. Rischiavo di durare una settimana.
Poi chiamai un mio amico nerd e gli chiesi quanto mi sarebbe costato farci un sito internet “dinamico”. All’epoca o eri statico o dinamico, non c’erano alternative. Mi disse: “Poco”, gli risposi: “Facciamolo”. Ci misi la faccia e parte del budget (questo a Fra non l’ho mai detto). Lo aggiornavo ogni giorno. Francesca mi chiedeva perché non telefonassi, io le rispon- devo che i clienti sarebbero arrivati leggendoci sul sito. Avanguardia pura. Rideva, ma secondo me ci credeva anche lei.
E se scrivessi un libri su Facebook?
E infatti fu un successo. Ogni giorno scrivevo un pezzo, i clienti ci contattavano, io andavo a trovarli, scrivevo i progetti e, ogni tanto, i claim delle campagne. Tanto il copy in agenzia non c’era. Alla fine diventai un bravo account, fino a quando non arrivarono i social.
“Potremmo usare Facebook per i clienti”. Francesca non ha mai provato a fermarmi. Continuava a sorridere e mi lasciava fare. E Facebook fu. E poi Twitter. E video per YouTube. Cambiai biglietto da visita, ci scrissi “social media manager” perché mi sentivo figo. Luca Conti nel frattempo scriveva il primo libro su Facebook in Italia7. Il secondo, Facebook Marketing, mi chiese di scriverlo con lui. Per Hoepli. Non guadagnavo molto in agenzia. Chiesi l’aumento, Francesca me lo concesse.
Un anno dopo, chiesi di andare via. Non era più una questione di soldi, ma di ambizioni. Scelsi di sposare il progetto di un’azienda IT che voleva fare un’agenzia di comunicazione al proprio interno: non ci veniva un nome decente, nacque Questagenzianonhanome, spinoff di Apra, oggi Var Group.
Tre anni più tardi, lessi l’annuncio di un’azienda che organizzava eventi di formazione; era una delle migliori in assoluto: Performance Strategies. Cercavano un digital strategist e, dopo un po’ di titubanze, accettai. Avrei potuto seguire tutti quegli eventi dal vivo, conoscere gli speaker, raccontarli.
“Il tuo problema – mi disse un giorno la donna che sarebbe diventata mia moglie – è che tu non vuoi vivere gli eventi dal backstage. Tu vuoi essere quello che sta sul palco”.
La teoria del piano inclinato
Aveva ragione. Fu un fallimento. Andò tutto male, mia madre si ammalò di cancro, a me veniva da vomitare tutte le mattine quando andavo a lavoro. All’improvviso, sentivo di non saper fare più nulla. Mi licenziai, e lo feci due giorni dopo che mi avevano proposto una exit strategy. Non avevo ripagato le loro aspettative, non volevo un euro di più. Quella sera tornai a casa leggero. Mia madre stava per morire, io non avevo più un lavoro e non avevo mai fatto il freelance in vita mia.
Come un corpo che scivola su un piano inclinato, arrivai inesorabilmente a toccare il fondo. Chiamai Carlotta Silvestrini, amica ed esperta di rebranding. Le chiesi un consiglio e un preventivo. Me li diede entrambi, non sono mai stato più felice di un investimento.
“Da oggi tu sei Lo storyteller” disse.
“E chi lo ha deciso?” risposi.
“Io. Lo mettiamo ovunque: nel sito, nella mail, nel biglietto da visita. Tu devi solo mantenere la promessa.”
“Quale?”
“Quella di esserlo.”
Credo di averlo fatto, e in ogni caso ha portato bene.
Milano, sono tutto tuo
All’inizio è stato complicato abituarsi, ma poi – mentre aiutavo RPlus a diventare Martin Brando – ho finalmente avuto l’opportunità di confron- tarmi con le grandi agenzie milanesi: Edelman, Doing, infine Ad Mirabilia (con la quale collaboro ancora, felicemente). Ho aggiunto al mio bagaglio le PR, l’influencer marketing e le media relations. Ho lavorato con grandissimi clienti: Eni, Enel, FCA, Nestlé, eBay e tanti altri. Si può fare una bellissima carriera lavorando con i piccoli, ma a me mancava non avere i grandi.
Un giorno mi chiama Marco e mi dice: “Ma perché non trasformiamo quella bella community che hai creato su Facebook in un’azienda?”.
“Ma quale, La Content Academy?”
“Sì, siamo io, te, Ale e Luisa. Ci bastano mille euro diviso quattro.”
Tra coraggio e incoscienza, dissi di sì.
Storytelling Festival 2023, Bari.
Quei mille euro, sei anni dopo, sono diventati seicentomila di fatturato nell’ultimo anno, e spero molti di più l’anno prossimo. Abbiamo fatto crescere persone, abbiamo assunto, abbiamo riportato tutto a casa (a Bari, ma mi sono tenuto una sede a Jesi perché a me le Marche sono piaciute, eccome), abbiamo scelto di ripartire anche dai nostri errori. È per questo che gli eventi li abbiamo fatti come diciamo noi. Così come i corsi. Non seguiamo schemi visti altrove perché, con tutto il rispetto, non ci sono piaciuti. Non ci hanno fatto tremare il cuore.
In azienda ci sono anche tornato, nei due anni di pandemia, quando sono stato Chief Storyteller Consultant di Banca Ifis durante il suo rebranding. Una cosa di cui vado orgoglioso e per la quale ringrazio infinitamente Rosalba e Francesca che avevo conosciuto ai tempi della Indesit.
Ma nulla è venuto bene come La Content, e il motivo è uno: non sono un impostore, anche se a volte mi piace pensarlo. E anche a voi, forse. Sono uno che ha imparato tanto sul campo, ha studiato, ha rischiato, a volte ha fallito miseramente, poi ci ha riprovato e domani chissà.
Continua a scrivere, Alessandro. Ma fallo per diventare una chiave di svolta delle tue idee e dei tuoi progetti. E, visto che ci sei, anche dei tuoi sogni.
Io sono Cristiano Carriero, speaker e imprendautore, e questa è L’ho fatto a Posta. Parte di quello che hai letto, lo troverai in Professione Content marketer, libro in uscita a maggio per Hoepli. Se lo trovi interessante, puoi già prenotare una copia.
Ti abbraccio e grazie per essere arrivato fino qui!
Ho sempre detestato chiamare e, di conseguenza, rispondere al telefono.
Da piccola mi nascondevo in ogni angolo possibile, per evitare quel momento.
Oggi la situazione non è cambiata molto e anche i messaggi vocali mi mettono a disagio...Solo una cerchia molto ristretta li riceve forse perché la voce, per me, è una parte molto intima.
Chissà, saremo noi quelli strani?
Grazie per gli innumerevoli spunti di riflessione!
Articolo incoraggiante. L’AI non potrà mai sostituire una cosa: le emozioni umane. E quelle, le può smuovere solo un altro umano (per ora ahah)